Negli ultimi due decenni è stato sinonimo di thriller soprannaturali dai finali a sorpresa e, per un certo periodo, è stato ingiustamente ignorato da pubblico e box-office. Il nome di M. Night Shyamalan (pseudonimo di Manoj Nelliyattu Shyamalan) viene inevitabilmente associato a twist narrativi imprevedibili che, nel finale di un film, ne ribaltano il senso, invitando lo spettatore a rivederlo da un punto di vista completamente diverso. Questo ha costituito spesso il suo marchio autoriale facilmente riconoscibile, una poetica e uno stile che si sviluppano secondo linee precise, facendone uno degli autori di thriller, spesso a sfondo soprannaturale, ma non solo, più affascinanti e originali del terzo millennio.
Sebbene dopo Il sesto senso il successo commerciale non gli abbia sempre arriso, Shyamalan ha continuato coerentemente a portare avanti il suo cinema seguendo le proprie direttive interiori inconfondibili, sia quando ha realizzato film per grandi major, sia quando ha iniziato a collaborare con la Blumhouse, grazie alla quale ha rilanciato la sua carriera.
Ma cos’è che rende Shyamalan Shyamalan?
È presto detto. Per prima cosa l’andamento quasi dolente delle scene, la cui temperatura emotiva sembra essere sempre bassa, e la recitazione degli attori, spesso all’insegna dell’understatement. Se in altri autori tutto questo potrebbe dare adito a film dal tono dimesso, nelle opere di Shyamalan invece diventa strumento di una messa in scena ipnotica, che intrappola lo spettatore nelle spire di una narrazione avvolgente e imprevedibile che, hitchcockianamente, lo porta esattamente dove vuole l’autore, manipolandone magistralmente le emozioni.
Il cineasta indiano realizza tutto questo rifuggendo la facile spettacolarizzazione e il montaggio ipercinetico, spesso costanti nei film dello stesso genere. Egli lavora invece all’interno dell’inquadratura, sul dettaglio, sulle sfumature, sui colori, creando atmosfere inconfondibili e di grande effetto.
È interessante come Shyamalan giochi sapientemente con i colori che, in molti suoi film, assumono significati ben precisi: il rosso, che ne Il Sesto senso indicava la presenza dei fantasmi e in The Village l’approssimarsi delle creature del bosco, esso prelude sempre all’irrompere di un elemento irrazionale nel mondo quotidiano. Il viola, l’ocra e il verde in Glass connotavano invece le qualità dei tre personaggi principali secondo associazioni provenienti dalle tradizioni orientali.
Altra costante, a livello tematico, è quella dei nuclei familiari spezzati che, attraverso le peripezie del film di turno, elaboreranno il lutto che ha segnato le loro vite, imparando ad andare avanti. Pensiamo alla famiglia di Mel Gibson in Signs, a Will Smith e al figlio Jaden in After Earth, alla coppia Bruce Willis e Robin Wright che in Unbreakable, sebbene non abbiano subito un lutto vero e proprio, devono comunque affrontare la morte del proprio matrimonio.
In occasione dell’uscita nelle sale il 21 Luglio del suo nuovo Old (ci si permetta l’ossimoro!), abbiamo deciso di dar vita a una classifica della sua filmografia. Con una piccola avvertenza: abbiamo voluto escludere da questa classifica l’unico vero scivolone della carriera di Shyamalan, ovvero L’Ultimo dominatore dell’aria, per via di una approssimazione nei personaggi e nel world-building che resero la visione faticosa e per nulla avvincente.
Per il resto siamo convinti che Shyamalan sia un autore ingiustamente sottovalutato, che merita l’attenzione di chi, dopo i fasti iniziali, lo ha tralasciato negli ultimi anni. Crediamo che meriti di entrare e rimanere nel novero dei maestri del genere e siamo sicuri che riserverà ancora grandi sorprese per il futuro.
Ecco dunque quelli che sono i migliori film di M. Night Shyamalan che secondo noi sono da vedere assolutamente, con i rispettivi trailer.
1. Unbreakable – il predestinato (2000)
Molto tempo prima del Marvel Cinematic Universe, prima anche degli Spider-Man di Sam Raimi, Shyamalan costruiva con questo film una profonda e consapevole riflessione sul supereroe e gettava anche il primo mattone del suo personale universo condiviso che sarebbe proseguito, non prima di molti anni, con Split (2016) e Glass (2019). La tesi di base di Unbreakable è che i fumetti sui supereroi siano in realtà un’esagerazione di fatti reali tramandati da migliaia di anni, prima tramite la mitologia, poi per mezzo della nona arte. Se questa teoria richiama in parte alcuni saggi teorici sulle forme del fumetto, in primis SuperGods di Grant Morrison (di cui abbiamo accennato parlando di Zack Snyder’s Justice League), il modo in cui Shyamalan la sviluppa è sorprendente e originale, come è nel suo stile.
Solo tramite l’agnizione finale, con un tipico twist “alla Shyamalan”, riusciamo infine a inquadrare la vicenda della guardia giurata David Dunne (un dimesso ed efficacissimo Bruce Willis) stalkerizzato dallo sfortunato Elijah Price (Samuel L. Jackson in uno dei ruoli della sua vita), all’interno di una precisa mitologia, che è proprio dove voleva portarci l’autore. Ritmo apparentemente dimesso, ma in realtà di una compattezza e di una rigorosità nello sviluppo invidiabili. Per noi questa pellicola vince a mani basse tra tutte quante.
2. Il sesto senso (1999)
Non poteva certo mancare in questa classifica, nelle posizioni più alte, il film che consacrò Shyamalan come maestro del thriller soprannaturale nonché del colpo di scena finale che ribalta tutto. Perfetto meccanismo narrativo, in cui il piccolo Cole (Haley Joel Osment) vede i fantasmi, si trasforma in una metafora della macchina-cinema che permette agli spettatori di vedere davvero la gente morta, gli attori trapassati, nonché di cogliere la natura fantasmatica di tale macchina di rappresentazione per immagini che è la settima arte. Senza però inoltrarci in ulteriori e pericolose elucubrazioni, possiamo dire che Il sesto senso rappresenta la summa degli elementi che hanno reso il cinema di Shyamalan così unico nel panorama del genere, regalandoci una storia che ha fatto epoca, una gestione magistrale dei momenti più terrificanti, un dosaggio perfetto delle informazioni da fornire agli spettatori, un finale con un twist da storia del cinema e una battuta diventata ormai iconica: “Vedo la gente morta”.
3. Split (2016)
Il thriller che rimette in carreggiata M. Night Shyamalan dopo alcuni insuccessi, a quasi 20 anni di distanza dal colpaccio de Il sesto senso. Split esplora i confini dell’Io e la labilità del concetto di identità utilizzando i codici tipici del thriller psicologico (incentrato in questo caso sulle gesta di un individuo disturbato e imprevedibile) e piegandoli alle proprie esigenze narrative e filosofiche. L’interpretazione di James McAvoy, che mette in scena 5 delle 23 personalità in cui si dissocia il protagonista, è inquietante e terribilmente credibile: si stamperà facilmente nella memoria dello spettatore insieme con altri famosi psicopatici della storia del cinema.
L’asso nella manica Shyamalan se lo gioca, come suo solito, anche qui solo alla fine, anzi nella scena dei mid-credits, con un inaspettato e sorprendente post-finale che in questo caso ridefinisce il modo di espandere gli universi narrativi in maniera a dir poco sorprendente, rendendo questo film l’imprevedibile secondo tassello dell’universo narrativo cominciato con Unbreakable. Chi era andato dunque a vedere questo film pensando a un ennesimo thriller su un assassino seriale dalla personalità schizofrenica ha così assistito, senza saperlo, alla origin-story di un villain, nel caso specifico di un cattivo chiamato L’Orda, che ritroveremo nel successivo Glass.
4. Glass (2019)
Chi si aspettava fuoco, scintille e botte da orbi da questo sequel, nonché conclusione della trilogia, si sarebbe scontrato con la sensibilità di Shyamalan. Glass spiazza tutti, contravvenendo alle regole non scritte dei sequel, secondo le quali nei capitoli successivi si deve fare come nei precedenti ma di più, molto di più. La messa in scena è come sempre rigorosa e contrassegnata da un lavoro di fino sulle inquadrature e sulla apparente freddezza della messa in scena, in linea con una concezione del film che si rivela come un vero e proprio film-saggio sulla narrazione fumettistica. Volendo seguire appunto le logiche fumettistiche, in questo caso si potrebbe parlare di un crossover tra gli universi narrativi di David Dunn e Elijah Price da un lato e Kevin Wendell Crumb dall’altra.
Come si diceva, Shyamalan non ricorre alla facile spettacolarizzazione e rifugge dunque dagli scontri fantasmagorici tipici dei super-eroi, ma porta la sua riflessione su fumetto e cinema ad un livello ulteriore, politico, grazie all’introduzione della inquietante dottoressa Staple (una glaciale Sarah Paulson in un ruolo a lei congeniale), la vera villain del film. Quest’ultima cerca di convincere i tre personaggi dotati di facoltà speciali (David, Elijah e Kevin), di essere in realtà tre individui assolutamente normali, i cui incredibili poteri non sarebbero altro che il frutto di fantasie paranoidi. In altre parole le istituzioni cercano di soffocare ciò che è la vera natura di queste persone, per poterli meglio dominare e conformare alla massa.
Da ricordare inoltre il Raven Hill Memorial, l’istituto psichiatrico in cui si svolge buona parte del film, che richiama in modo intuitivo l’Arkham Asylum dei fumetti di Batman. Anche se verrà a mancare il classico showdown (scontro finale) tipico dei cine-comics, non manca certamente nel finale una bella sorpresa “alla Shyamalan”.
5. The Village (2004)
L’idea di un villaggio appartenente ad un’epoca anteriore di un paio di secoli rispetto alla nostra, tenuto in scacco da strane creature soprannaturali che abitano nei boschi attigui, dice in realtà molte cose sul modo in cui le autorità costituite tengono la popolazione soggiogata tramite la paura. Se all’epoca il film fu interpretato come una metafora del mondo post-11 Settembre, incancrenitosi su leggi che, con la scusa della sicurezza, di fatto limitavano la libertà e la privacy degli individui, ancora oggi The Village si impone, grazie anche ad un ulteriore coup de théatre tipicamente shyamaliano nel finale, come inquietante riflessione sulla percezione indotta della realtà o, se vogliamo, come si dice oggi, sulla narrazione degli eventi così come viene raccontata dal potere e da chi gestisce le informazioni. Film tremendamente profetico e sempre attuale.
6. Signs (2002)
Come inserire in unico film il tema dei cerchi nel grano con quello degli alieni. Se la trama di per sé non brilla per originalità, il modo in cui Shyamalan costruisce la tensione dell’assedio notturno alla casa degli Hess è semplicemente da mozzare il fiato. Sebbene qui manchi un vero e proprio twist finale, le premonizioni contenute nelle ultime parole della defunta moglie di Mel Gibson/Graham Hess trovano comunque un senso nello scontro finale con gli alieni nel salotto di casa. E infatti la casa assume qui un significato fondamentale, sia per la sensibilità con cui Shyamalan descrive le dinamiche familiari di un nucleo che ha da poco subito un lutto terribile, sia per il ruolo di topos che svolge nell’ambito del genere horror. A dispetto del tema fantascientifico dell’invasione aliena, Signs è in realtà un horror nudo e crudo con i personaggi asserragliati in uno spazio chiuso e minacciati da creature da incubo. Il tutto gestito, manco a dirlo, in modo impeccabile.
7. E venne il giorno (2008)
Il thriller più hitchcockiano di Shyamalan, debitore senz’altro nei confronti de Gli uccelli (1963), in cui, come nella pellicola del Maestro del brivido, il mondo naturale si ribella alla presenza infestatrice degli esseri umani e ne organizza sistematicamente l’estinzione. Con la differenza che mentre nel capolavoro hitchcockiano nulla viene spiegato riguardo l’improvvisa furia omicida dei volatili, qui invece si cerca di fornire una risposta pseudo-scientifica, e cioè che le piante abbiano prodotto una tossina capace di inibire l’istinto di autoconservazione degli esseri umani. Questo permette a Shyamalan di imbastire alcune tra le scene più agghiaccianti della sua filmografia come quella in cui gli operai di un cantiere che, come tanti lemmings, si buttano docilmente giù dalle impalcature di un palazzo. Oppure quella in cui la vecchia pazza nella casetta sperduta minaccia gli improvvisati eroi del film guidati da Mark Whalberg. Anche in The happening (questo il titolo originale) osserviamo una famiglia spezzata, che si ricompone in modalità imprevedibili.
8. The Visit (2015)
Il film che ha segnato l’inizio della rinascita commerciale di Shyamalan, nonché l’inizio della proficua collaborazione con la BlumHouse, casa di produzione specializzata in horror a basso costo ma dalle idee forti, che spesso raggranellano numerosi quattrini. Insieme con The Village e Lady in the Water è il film a carattere maggiormente fiabesco (ovviamente parliamo di fiabe dark) dell’autore di origini indiane, con i due piccoli protagonisti del film in balia di una coppia di nonni apparentemente solo squinternati, ma che nascondono in realtà un segreto agghiacciante. I giovanissimi Becca e Tyler Jamison, come dei redivivi Hansel e Gretel, rischieranno di finire letteralmente al forno. Non nascondiamo che questo è stato il film di Shyamalan che più ci ha terrorizzato, forse per il modo geniale in cui ribalta la figura rassicurante dei nonni, che nel nostro paese è particolarmente sentita.
9. Lady in the water (2006)
Sottovalutatissima fiaba moderna che riflette sugli archetipi del fantasy, mettendo insieme una serie di eccentrici personaggi, a partire dal timido Cleveland Heep (un grandissimo e intenso Paul Giamatti), che cercano di mettere in salvo una creatura fatata acquatica, una Narf, dal nome paradigmatico di Story, capitata per caso nel nostro mondo e interpretata dall’eterea Bryce Dallas Howard. Saranno i personaggi stessi, guidati da Cleveland, a costruire meta-cinematograficamente la storia del film, scoprendo quale ruolo hanno all’interno della vicenda, o meglio, quale archetipo debbano incarnare per far avanzare l’ingranaggio narrativo. Film apparentemente ingenuo e all’epoca incompreso, andrebbe rivisto per la sapienza narrativa e registica con cui Shyamalan mette in scena l’allestimento narrativo di una fiaba. Vertiginosa messa in abisso abilmente gestita, grazie anche alla esilarante presenza di Bob Balaban nei panni del critico cinematografico che fa da odioso grillo parlante, enunciando preventivamente e, furbamente, tutte le eventuali critiche che potevano essere mosse (e che furono effettivamente mosse) nei confronti del film. In questo caso il riferimento cinematografico è illustre perché Fellini utilizzò lo stesso stratagemma in 8½.
10. After Earth
Progetto su commissione per il nostro Shyamalan, fortemente voluto da Will Smith che imbarca nell’impresa anche il figlio per creare uno psico-dramma familiare di ambiente fantascientifico che Shyamalan trasforma in un survival movie ambientato su una Terra diventata ormai un pianeta ostile e abbandonata da secoli a causa dei cataclismi climatici. Qui il giovane e inesperto Kitai (Jaden Smith) dovrà vedersela con numerose insidie atmosferiche e animali, ma soprattutto dovrà affrontare un Ursa, mostri creati da una razza aliena per distruggere gli umani, ciechi ma estremamente sensibili ai feromoni emanati dagli esseri umani quando hanno paura. Per ovviare a questo, una particolare divisione di Ranger dello spazio, capitanata proprio da Will Smith/Cypher, si è specializzata in una difficile tecnica, detta dello “spettrare”, che permette di controllare la paura e divenire di fatto invisibili ai sensi degli Ursa. È questo meccanismo che permette a Shyamalan di trovare le sue corde migliori anche in un film meno personale e di allestire dunque un meccanismo narrativo che, proprio tramite il controllo della paura, gioca abilmente con il sentimento che maggiormente definisce la sua filmografia.