Nello scrivere questo articolo dedicato ai 40 anni de I predatori dell’arca perduta (distribuito nelle sale americane il 12 Giugno 1981), pellicola che diede vita alla saga dell’archeologo col cappello e la frusta, è impossibile non tenere conto dell’impatto che questo film ebbe sull’immaginario di ognuno, ridefinendo il genere del cinema di avventura e coniando perfino un aggettivo: “alla Indiana Jones”. Sfidiamo chiunque a non sorridere con affetto non appena si odono le prime note della celebre marcia de I predatori, composta da quel genio di John Williams. Siamo anche sicuri che qualunque fan di Indy avrà aspettato il momento giusto nella propria vita per poter dire: “Non sono gli anni amore, sono i chilometri“. Ecco perché in questo caso ci sentiamo di poter riportare il vissuto personale di chi scrive in relazione a uno dei film più iconici e amati della storia del cinema. Ma prima diamo qualche cenno sulla trama.
La trama
C’è davvero bisogno di parlare della trama de I predatori dell’arca perduta? Per i pochi esseri umani sul pianeta che non la conoscono basti dire che l’ambientazione temporale è il 1936 e che il famoso archeologo americano Indiana Jones si vede affidare l’incarico dai servizi segreti del suo paese di recuperare, prima che lo facciano i nazisti, un leggendario manufatto archeologico: la misteriosa Arca dell’Alleanza, ovvero il prezioso contenitore in cui Mosè avrebbe nascosto le tavole dei 10 comandamenti, proprio quelli ricevuti direttamente da Dio. La missione porterà Indy dal Nepal al Cairo, fino a un isolotto della Grecia, cercando di strappare il mitico artefatto dalle mani degli scagnozzi di Hitler, che intendono utilizzarne la potenza soprannaturale per dominare il mondo, e dalle grinfie del suo acerrimo nemico, l’archeologo francese Belloq.
Memorie di Indy
La mia avventura con Indiana Jones cominciò nell’Autunno del 1981 quando i miei genitori mi portarono a vedere al cinema, a detta loro, un film su una specie di caccia al tesoro. Il titolo era complesso: I predatori dell’arca perduta. Per i miei 6 anni e mezzo di esperienza il termine arca poteva riferirsi solo all’arca di Noè ma nemmeno i miei genitori seppero darmi risposte sicure in merito. Andai dunque al cinema con un’idea davvero vaga di ciò che avrei visto, se non che si trattava di una specie di caccia al tesoro.
Adesso scriverei una sciocchezza se affermassi che ricordo tutti i dettagli di quello che vidi all’epoca ma le poche cose di cui sono sicuro che rimasero impresse nella mia avida mente di bimbo furono, nell’ordine: la battuta “Adios imbecille” pronunciata nei confronti del cadavere trafitto di Alfred Molina; un tizio col cappello che viene inseguito da un’enorme palla gigante; l’inquietante spia nazista (ovviamente non sapevo chi fossero i nazisti) che si brucia la mano col medaglione incandescente e che, successivamente, mostra il marchio sulla suddetta mano; il tizio col cappello (di cui sopra) che spara a un altro tizio che fa il deficiente con la scimitarra; un arabo col turbante in testa (abbigliamento che associavo ai mondi fiabeschi delle Mille e una notte) a cavallo di una motocicletta moderna insieme con una scimmia; i serpenti (ma proprio tanti serpenti); la spia nazista (di cui sopra) a cui si scioglie la faccia. La visione della testa di Belloq che esplodeva mi fu invece ostruita dalla amorevole mano di mia madre che, evidentemente, aveva deciso che una testa sciolta era già abbastanza. Con mia gioia ero comunque riuscito a intravedere gli spaventosi fantasmi che scaturivano dall’arca. In ogni caso quello che avevo visto era già tanto per farmi divertire come un matto e desiderare di “fare un altro giro” al più presto. All’epoca non avevo ovviamente idea di cosa fosse un regista. Chiesi a mio padre chi fosse colui che inventava tutte quelle cose strabilianti che avevo visto su grande schermo e come risposta ebbi la più bella in cui potevo sperare: il regista è la mente dietro i film, colui che decide quello che vedremo sullo schermo e Steven Spielberg è il regista de I predatori. Questa risposta mi bastò a identificare Spielberg come il regista per eccellenza e da allora non mi persi più nessun suo film al cinema (tranne Il colore viola). L’esperienza filmica con I predatori e la rivelazione paterna sul ruolo del regista furono i primissimi passi in una fruizione un po’ più consapevole dei film: c’era dunque qualcuno che pensava tutte quelle scene e le metteva in immagini.
Come Maradona e Pelé
In seguito scoprii che dietro la creazione di Indiana Jones non c’era soltanto Spielberg ma anche George Lucas (produttore del film nonché autore del soggetto insieme con Phil Kaufman), ovvero i miei due beniamini dell’immaginario cinematografico. Era come sapere che Maradona e Pelé giocavano nella stessa squadra. Vedere a 40 anni di distanza le immagini del backstage del film in cui i due cineasti lavorano sul set fianco a fianco non può non regalare un’emozione intensa a chi da sempre vive di cinema. Due leggende viventi che unirono gli sforzi e le loro immaginative per creare qualcosa che finì dritto nella storia del cinema. I predatori segnò infatti un passaggio epocale nel quale i film d’avventura acquisirono la dignità di opere per adulti, realizzate con produzioni di serie A, ma soprattutto ci traghettò in un decennio contrassegnato da pellicole ad alto budget, certamente rivolte al grande pubblico, ma caratterizzate da idee immaginifiche rivoluzionarie, freschezza di personaggi e spericolata inventiva narrativa, dando il via alle opere di numerosi illustri autori (Zemeckis, Dante, Howard, Donner) sotto l’egida di Spielberg e Lucas.
Tornando a I Predatori, l’incredibile mix di avventura e ironia, il ritmo indiavolato che non perdeva mai i giri, a cominciare dal folgorante incipit in Perù, un protagonista che, sebbene sopravvivesse alle situazioni più assurde, non era affatto infallibile ma invece risultava più che umano, location esotiche, mistero e miti soprannaturali, sono solo alcuni degli elementi che resero la pellicola di Spielberg un successo planetario.
Il quid
Ma c’era qualcosa in più, un quid che solo due cineasti come Spielberg e Lucas, in quel momento storico, seppero inoculare alla pellicola. E’ qualcosa che risulta difficile da spiegare a parole ma che viene comunque trasmesso, passa sottotraccia e arriva diretto al cuore e all’inconscio degli spettatori. Si tratta di una qualità magica che non tutti i registi posseggono e che conferì alle avventure di Indiana Jones un’aura mitologica e al tempo stesso familiare, una sorta di realismo magico, se vogliamo. Sebbene le avventure di Indiana Jones siano ambientate in un preciso momento storico, il 1936 de I predatori non voleva essere una ricostruzione necessariamente accurata ma bensì un luogo dell’immaginario in cui i nazisti sono sì spietati ma più vicini ai cattivi da fumetto e le leggende, gli antichi miti ebraici in questo caso, diventano più che tangibili, tracimando nel nostro mondo di certezze cartesiane. Era dunque l’immaginario dei ragazzi americani (e di molto mondo occidentale) cresciuti a letteratura pulp e weird, nonché a pane e film d’avventura, che acquistava una sorta di spessore reale. Per qualche motivo Spielberg e Lucas resero plausibile che qualcuno si aggrappasse al muso di un camion in corsa, passasse sotto il veicolo per poi attaccarsi con la frusta al semiasse, lasciandosi trascinare per poi riaggrapparsi infine allo stesso camion. Il tutto era calato certamente in una dimensione lontana dalla vita quotidiana di tutti, eppure accettabile, in un certo senso verosimile all’interno di un patto silenzioso tra i creatori di Indy e il pubblico.
Realismo!
“Il film che stiamo girando non è vita vera ma non è neanche una parodia o un’imitazione”: le parole che Spielberg pronuncia nel making of girato durante la lavorazione del film, sono emblematiche delle sue intenzioni. Il regista di Cincinnati era consapevole di stare girando qualcosa di lontano dalla realtà ma nonostante questo egli voleva che ciò che lo spettatore avrebbe visto sullo schermo fosse credibile e naturale. Ovviamente tali aggettivi possono sembrare fuori luogo in relazione a un film di Indiana Jones, ma se pensiamo a ciò che può essere ritenuto verosimile all’interno di un genere codificato come i film di avventure allora le cose cambiano. Spielberg e Lucas volevano ricreare le atmosfere dei vecchi serial americani degli anni Trenta e Quaranta che venivano proiettati nelle matinee, ovvero spettacoli mattutini per ragazzi. Si trattava di film a episodi dalle ambientazioni prevalentemente esotiche in cui l’eroe di turno viveva avventure incredibili e puntualmente, alla fine di ogni puntata, si ritrovava appeso sopra un precipizio (cliffhanger) oppure in qualche altra situazione di pericolo. I mezzi con cui venivano realizzati i serial erano esigui e i risultati visivi a volte erano davvero deludenti. Lo scopo dei due cineasti era dunque riprendere quelle atmosfere affascinanti e rocambolesche ma inserirle in un contesto di verosimiglianza che permettesse alla sospensione dell’incredulità dello spettatore di rimanere tale. Per fare questo era necessario un budget consistente, ovvero 20 milioni di dollari, una cifra che all’epoca nessuno studios avrebbe mai stanziato per un film d’avventura. Ma se si voleva far uscire il genere dal ghetto dei film “di cartapesta”, realizzati squisitamente per i ragazzi, era dunque necessario alzare il tiro. Come è noto, dopo varie porte sbattute in faccia, Lucas convinse gli executive della Paramount che si poteva fare.
Perfezionamento di uno stile
Con I predatori Spielberg doveva riscattarsi dal flop commerciale di 1941 – Allarme a Hollywood (1979) film dalla comicità demenziale (nel senso buono e anarcoide del termine) troppo in anticipo sui tempi, e dimostrare che i successi de Lo squalo (1975) e Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) non erano solo dei fuochi di paglia. Con il primo film della saga di Indiana Jones diede dunque fuoco alle polveri a tutto il suo arsenale di intuizioni geniali in materia di messa in scena, di ritmo, di soluzioni visive e narrative inedite, di giusta enfasi a personaggi e situazioni, insomma tutto ciò che occorre per fabbricare un vero e proprio mito.
La famosa Spielberg-Face per esempio, ovvero il primo piano di un personaggio evidenziato da un particolare movimento di macchina (in genere tramite dolly) che avvicina all’improvviso lo spettatore ai sentimenti più intimi del personaggio, che nel cinema di Spielberg corrispondono molto spesso alla meraviglia, a volte al terrore, viene qui perfezionata e portata a livelli mai raggiunti prima. Ne I predatori ce ne sono due, entrambe iconiche, che da sole identificano l’intero film. La prima Spielberg-Face si trova all’inizio quando finalmente vediamo per la prima volta il volto del protagonista. Dopo aver disarmato con la frusta un componente della spedizione che voleva fargli la pelle, Indiana Jones, uscendo dall’ombra, viene davanti alla camera, che si avvicina a sua volta in modo discreto, e finalmente vediamo il viso indomito e determinato di Harrison Ford, per nulla scalfito dal tentativo di omicidio.
Nella famosa scena dell’inseguimento dei cesti di vimini, durante la quale Jones spara allo spadaccino in uno dei momenti più leggendari e riusciti della storia del cinema, Indiana si ritrova d’improvviso in una piazza gremita di persone che portano enormi cesti tutti uguali a quello che sta cercando, nel quale è prigioniera Marion. Spielberg non ci mostra la scena con un semplice primo piano di Harrison Ford e controcampo della piazza. Il regista tiene la macchina da presa ad una certa altezza, aspettando che Ford arrivi affannato dal vicolo fino a riempire tutto il fotogramma con i suoi occhi spaesati: ecco la seconda Spielberg-Face. A questo punto la macchina da presa si allontana con un movimento fluido e ci permette finalmente di vedere ciò che aveva atterrito Indiana Jones, ovvero la distesa di persone con i cesti tutti uguali. Tecnicamente si trattava di una ripresa molto complessa da realizzare all’epoca, soprattutto senza l’aiuto della computer grafica, e infatti quando la camera si allontana dal volto di Indy perde il fuoco per qualche istante. Nonostante questo, l’impatto visivo di tutta la scena è formidabile.
Anche nel trovare un ritmo interno alle scene e alle singole inquadrature, Spielberg raggiunge la perfezione proprio con questo film. Basti un esempio: durante la colluttazione nella locanda in Nepal, Indy viene bloccato da uno scagnozzo che gli tiene la testa sul bancone del bar. Toth, la sadica spia nazista, da fuoco all’alcool presente sul banco, che in pochi secondi raggiungerà la testa di Harrison Ford. Questi si rivolge a Marion, nascosta sotto il bancone, intimando: “Whiskey!” come se stesse ordinando al bar. Marion prontamente gli porge una bottiglia e Indy la sbatte sulla testa dell’energumeno che lo ha bloccato, giusto in tempo per evitare le fiamme. La macchina da presa passa velocemente da Indy che “fa l’ordinazione” a Marion che si trova in basso, poi l’obiettivo si alza verso la bottiglia che si trova sullo scaffale in alto, per poi infine seguire il movimento della mano di Marion che passa la bottiglia salvifica a Indy. Sembra una sciocchezza ma questo triplo eppure veloce e semplice movimento di macchina sottolinea tutta l’ironia e la paradossalità di una scena di lotta in cui qualcuno che sta per morire pensa di ordinare del whiskey. Un momento di stallo durante l’azione viene risolto in maniera risoluta, ironica e geniale: questo è puro Spielberg!
L’archeologo col cappello e la frusta
La chiave emotiva che permise agli spettatori di entrare in risonanza col film fu proprio Indiana Jones, un personaggio scritto maledettamente bene, al quale furono apportate grosse dosi di umorismo e ironia dalla penna di Lawrence Kasdan che scrisse la sceneggiatura dopo tre giornate intense di brainstorming in cui Lucas e Spielberg gli espressero le loro idee. Come detto in precedenza Indiana Jones, nonostante uscisse vivo dalle situazioni più incredibili, rimaneva però sempre più ammaccato e non nascondeva la fatica, la rabbia e la disperazione in cui veniva gettato dalle sadiche menti di Lucas, Spielberg e Kasdan. Si trattava dunque di un eroe fallibile che, in più di un’occasione, doveva ringraziare anche la sua buona sorte se riusciva a scamparla per il rotto della cuffia. Al tempo stesso la sua ironia, l’arguzia, la battuta fulminante al momento giusto lo rendevano divertente e irresistibilmente canagliesco. Se a tutto questo aggiungiamo la faccia da schiaffi di Harrison Ford allora il capolavoro è fatto. L’attore riuscì a imprimere la giusta dose di umanità e spavalderia a Indiana Jones, avvicinandolo al pubblico in modo intimo e infondendogli al tempo stesso vagonate di carisma. Esaminando i backstage dell’epoca risulta chiaro però come la direzione di Spielberg fu determinante per tirare fuori da Ford e da Karen Allen i momenti recitativi più veri e intensi, nonché la giusta chimica che si venne a creare tra i due.
La leggenda
Se ancora oggi, a 40 anni di distanza, quando ascoltiamo le inconfondibili note della Raiders March ci si stampa un sorriso a 32 denti sulla faccia un motivo c’è e cioè che Spielberg e Lucas hanno fatto il loro lavoro maledettamente bene. Come Leone col western prima di loro e Tarantino successivamente con il noir, anche i due cineasti californiani giocano con i materiali filmici che più amano, cioè gli elementi base dei film d’ avventura, come due bambini farebbero con i componenti lego presi da confezioni diverse. Ciò che ottengono però non è la semplice somma delle parti utilizzate ma bensì qualcosa di più, assolutamente unico e strabiliante. Al di là delle possibili etichette di cinema post-moderno, ciò che rimane de I predatori è un tesoro inestimabile, prezioso quanto la stessa arca dell’alleanza, talmente zeppo di scene iconiche che sembra incredibile siano riusciti a ficcarle tutte in unico film. Ognuno ha le sue ovviamente. A noi piace ricordare quella in cui, durante lo scavo del pozzo delle anime, in cui è nascosta l’arca, la sagoma di Indy, stagliandosi in controluce su un enorme sole che tramonta (elemento visivo lucasiano per eccellenza, si guardi L’uomo che visse nel futuro e ovviamente Star Wars), si libera del turbante con cui si era intrufolato nel campo dei nazisti e si calca in testa l’immancabile cappello Fedora a falde larghe, mentre gli scavatori intonano un esotico canto arabo. Indiana Jones si riappropria del suo oggetto identificativo e, per la prima volta all’interno del film e della storia del cinema, diventa un’icona cinematografica.