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    Home » Sport » Scudetto all’Inter: 11 motivi per cui ha vinto la squadra di Antonio Conte

    Scudetto all’Inter: 11 motivi per cui ha vinto la squadra di Antonio Conte

    Scopriamo e analizziamo insieme gli undici motivi per cui l’Inter si è aggiudicata lo scudetto.
    Niccolò PetrilliDi Niccolò PetrilliMaggio 2, 2021
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    L'Inter vince lo scudetto
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    Il 16 Maggio 2010, a Siena, l’Internazionale Milano FC vinceva il suo ultimo Scudetto, anticipando di poco la vittoria in Coppa Italia e il trionfo in Champions League. Triplete. Era l’Età d’Oro di Mourinho, il Semidio condottiero di cui i tifosi hanno cantato le lodi per tutto il decennio successivo, fatto di infime posizioni, giocatori improbabili e gelidi mercoledì sera a veder giocare gli altri.

    Nel 2016 giunge uno spiraglio di luce dall’Est, dalla Cina ruggente: Suning, espressione aziendale della famiglia neo-miliardaria di Mr. Zhang Jindong, rileva la maggioranza della società. Da quel giorno ad oggi, il primo Scudetto degli anni ’20 di questo strano secolo e millennio, vinto durante una pandemia, senza tifosi allo stadio… beh, sarebbe stata Storia lo stesso, ma per l’Inter lo è ancora di più.

    Ma come ha fatto a vincere? Ve lo chiedete in tanti sicuramente, soprattutto se il vostro cuore batte altri colori. Allora, analizziamo insieme gli undici motivi per cui l’Inter di Antonio Conto ha vinto lo scudetto!

    1. Suning e la famiglia Zhang

    Un uomo di mezza età dallo sguardo duro, segnato da una vita vorticosa di politica ed imprenditoria che lo hanno reso uno degli uomini più ricchi al mondo. Appena divenuto proprietario, saluta i tifosi con un breve video, e con un pugno alzato urla uno storpiato Forza Inter, che nella pronuncia suona come Fozza Inda. Quell’espressione è oggi allo stesso tempo sberleffo da parte dei bulletti avversari, e icona romantica per i tifosi interisti.

    Zhang Jindong è uno che è abituato a non fare passi falsi, e nonostante gli ultimi due anni siano stati tremendi per lui e il suo gruppo, l’Inter rimane ancora un suo trionfo. Suo e del rampollo Zhang Kangyang (aka Steven), il più giovane Presidente interista di sempre e il più giovane a vincere uno Scudetto dal dopoguerra – che non segue la squadra dal quartier generale di Nanchino, ma si trasferisce a Milano e ne diventa parte integrante. La gestione politica cinese della pandemia e il tracollo economico fanno franare le prospettive future e lo obbligano al rientro in patria, ma non tolgono il suo supporto. D’altro canto, se fosse stato tutto bello e lineare non sarebbe stato uno scudetto dell’Inter.

    Il futuro è ancora aperto a tutte le possibilità, positive e negative. Ma Steven è tornato in Italia per festeggiare il primo trofeo della sua squadra, poi in autunno si vedrà. Interista vero.
    Ps: la pronuncia corretta di ZHANG, alla faccia di giornalisti e telecronisti, è [tʂɑŋ]. Suona simile al francese JEAN, e significa arciere. 

    2. Antonio Conte

    Pochi sono stati gli interisti, forse nessuno, contenti dell’arrivo di una bandiera juventina alla guida della squadra, che dopo l’ormai lontana esperienza di Lippi era diventato un tabù. Già l’ex AD Juve Marotta alla dirigenza era stato visto con sospetto, appena un anno prima. Tuttavia, a colpi di “Perché io?” (cit.) e “Basta Pazza Inter” il più pagato allenatore di sempre si è presentato sulla panchina di San Siro con aspettative divergenti, sostituendo un esonerato Spalletti che, tra promesse non mantenute e difficoltà varie, aveva comunque riportato la squadra in Champions League e pareva essersi davvero investito di colori e valori interisti.

    Così, nonostante i due secondi posti – Campionato ed Europa League – conquistati da Conte al primo anno sulla panchina nerazzurra, i malumori sono rimasti e i mesi estivi e autunnali del 2020 sembravano dar ragione ai detrattori: un Conte con la valigia, con la cravatta nera sulla camicia bianca, pronto a tornare da mamma Juve, fallimentare, nervoso e deluso da squadra e società. Ma col Natale, il cambiamento: non più l’arroccarsi inutile, ma la sperimentazione di moduli. La squadra ricompattata. E in occasione del primo memorabile Inter-Juve dell’era moderna – tra fuochi d’artificio dentro e fuori dal campo – il diverbio con Agnelli e Nedved restituisce agli occhi dei tifosi non più un mercenario della Juve, ma un allenatore professionista intenzionato a dimostrare di essere un campione. Con una cravatta diventata finalmente blu e, infine, le ultime corse sfrenate in campo ad ogni gol che avvicinavano l’Inter allo Scudetto.

    Missione compiuta. Quindi, nota per il Presidente Zhang: e adesso, che si fa? La vogliamo la seconda stellina sulla maglia?

    3. La Juventus

    “Più sono grossi, più fanno rumore quando cadono”. Dopo nove anni da regina indiscussa della Serie A, quattro Coppe Italia e una finale (persa) di Champions League, la Juve ha compiuto un inaspettato harakiri che per primo ha lasciato aperta la strada all’Inter. Si è apparentemente chiuso un ciclo, vittima della pandemia, della scommessa persa di un Pirlo allenatore prodigio alla prima esperienza, dell’ossessione di dirigenza e tifosi per la Champions League, e della inevitabile minore efficacia offerta da campioni a fine carriera come Chiellini, Bonucci, Buffon…e lo stesso Ronaldo, costosissimo e valoroso rey che senza un esercito adeguato non può però vincere da solo tutte le battaglie, specialmente in Europa. Ultimo, l’eccesso di fiducia nell’armata miliardaria della Superleague.

    Tutto questo ha contribuito alla situazione odierna, e dopo la rincorsa al primo posto già quasi completata dai nerazzurri nello scorso Campionato, un dato è solare: perché l’Inter vincesse lo scudetto era necessario che la Juventus lo perdesse. E così è stato.

    Una speranza: la Juve inizierà un nuovo ciclo, e forse finalmente potremo lasciarci alle spalle veleni vecchi di decenni.

    4. La Champions League

    O meglio, l’uscita catastrofica ai gironi dalla Champions League, senza neppure la consolazione dell’Europa League. Una Inter sfiancata dagli impegni estivi – proprio di quella EL persa solo in finale -, colpita da focolai Covid, avversari rivelatisi più complessi che sulla carta…la debacle è stata totale, sconfortante. Eppure, dalle ceneri di una disgrazia calcistica, tra gli sfottò dei rivali italiani  (meritati? Col senno di poi…) è emersa una squadra compatta, arrabbiata, costruita comunque per competere ad alti livelli e con la possibilità di concentrarsi su un solo match a settimana, a discapito delle rivali allo scudetto impegnate in allenamenti extra e trasferte europee. La sconfitta europea non deve diventare un’abitudine né un alibi, ma aver saputo cogliere l’occasione, e aver trasformato lo sconforto in determinazione, è un altro dei tasselli che ha costruito la vittoria della serie A, dopo 11 anni.

    Da notare che nel frattempo anche la stessa CL ha rischiato l’eliminazione…

    5. La Pandemia

    Questa era prevedibile: con gli stadi vuoti, l’effetto del pubblico è stato annullato. Persino gli arbitri hanno fatto molti meno errori. Si è giocato senza lo stimolo né la pressione del dodicesimo uomo, tutti i campionati ne hanno risentito, e in Italia l’Inter a pari condizioni era armata meglio di tante – onorevolissime – rivali. 

    Inoltre, Conte ha potuto telecomandare i suoi giocatori – sua caratteristica dominante – senza neppure sgolarsi, e i vari reparti in campo hanno potuto comunicare senza difficoltà.

    Non durerà, (e questo, per fortuna)

    6. Il gioco

    532, 442, 352…i moduli nel calcio contemporaneo contano poco, ma è inevitabile notare come il mantra contiano sia entrato – a poco a poco – nella testa e nei movimenti della squadra, e che gli esterni veloci a tutta fascia tanto desiderati dall’allenatore leccese siano stati determinanti in innumerevoli situazioni.

    Oltre a questo, un nuovo volto dell’Inter, che non si vedeva da tempo: un gioco cinico, talvolta lento, attendista, quasi maligno nel suo schema di chiusure in difesa e ripartenze brucianti, che più che il vecchio catenaccio-contropiede ricordano uno schema di football americano, sempre alla ricerca della colonna belga pronta allo scatto e alla sponda. Voci di mercato vogliono Lukaku braccato da mezza Europa del calcio…ma forse sarebbe diventato un eroe anche con casco e paraspalle.

    7. L’attacco: dalla Lu-La a San Matteo (Darmian)

    Lu-La, ovvero Romelu Menama LUkaku Bolingoli e LAutaro Javier Martínez. Il gigante di Anversa e il toro argentino, la coppia di attaccanti più prolifica d’Italia e la seconda in Europa, con 36 gol all’attivo, innumerevoli assist e una partecipazione al gioco di squadra che ha costruito senza dubbio l’impalcatura su cui issare la Coppa Campioni d’Italia. Costosamente voluto da Conte l’uno, allevato l’altro dopo l’ottima impostazione al gioco italiano datagli da Spalletti, i due hanno riempito le reti e condotto – anche nella scorsa stagione, senza però risultati finali – l’Inter verso il trionfo, con accelerazioni palla al piede da quarterbacks, rientri fulminei, dialoghi e sudore.

    Ed eppure questa caterva di gol è solo la metà di quelli totali, divisi tra quasi tutti gli altri musicisti dell’orchestra, da De Vrij all’uomo-razzo Hakimi – che ha corso l’ultimo mese osservando il Ramadan! -, fino al rinato Sanchez ed al celebratissimo (San) Matteo Darmian, partito dal fondo della panchina e diventato il simbolo della crescita interista, in grado di portare a casa anche partite bloccate dalle difese avversarie.

    Su, quante volte avete perso la voce e rovesciato il tavolo, quest’anno, ululando alla Lu-La?

    8. Il Centrocampo: i tre tenori

    Cosa ci fanno un sardo, un croato e un danese in mezzo al campo? Non fanno ridere nessuno degli avversari, ecco cosa. Per tutto il girone di ritorno, dopo il (finalmente, sigh) riposizionamento in gerarchia di un Vidal fortemente voluto ed altrettanto fortemente dannoso e la miracolosa risoluzione del Caso Eriksen – che per un anno intero ha fatto infuriare tutti con tutti: allenatore, giocatore, tifosi, giornalisti (e scommettiamo, la dirigenza) – contornati dalle ali veloci, sostituiti il meno possibile, i tre tenori del centrocampo hanno filtrato ogni pallone, percorso decine di km e interrotto gli schemi di gioco rivali ad ogni partita.

    Il risultato è stato quello che ci si poteva aspettare da una situazione del genere: è difficile attaccare una squadra il cui centrocampo regge gli urti, ed è difficile tenere il campo quando quella squadra avanza.

    Ci vogliono i giocatori giusti, e l’Inter li ha avuti. Chiamiamoli per nome: Barella, Brozovic, Eriksen.

    9. La difesa: il muro SDB

    È cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scap… no, scusate. Che in Italia vince chi difende meglio, chi prende meno gol. Siamo il paese delle difese schierate, un tempo abituato a partite interminabili da chiudere sull’1-0. E l’Inter difende meglio di tutti, ormai da anni, con un reparto costruito a partire dal guerriero Sayan slovacco dal nome ironico, Milan Skriniar. Accanto all’altro super orange, De Vrij, accompagnati nello schema contiano da Godin nella scorsa stagione, poi D’Ambrosio e la rivelazione Bastoni. Così, il muro alzato intorno a Capitan Handanovic – solo osanna ad un uomo che ha tenuto chiusa la porta attraverso le valli di lacrime post-triplete, e senza mai un commento fuori luogo – ha fatto rimbalzare le pallonate avversarie partita dopo partita, sostituendo la ormai demolita BBC juventina con la SDB interista, e portando l’Internazionale Milano alla conquista dello Scudetto numero 19.

    Quando il clean sheet ti porta alla vittoria.

    10. Gli uomini squadra e spogliatoio

    Si dice che la vera squadra sia quella che rimane in panchina, quella che si cambia negli spogliatoi sapendo che non metterà piede in campo, che arriva presto e torna tardi all’allenamento solo per essere pronta a giocare anche pochi minuti. Perché se questa squadra oscurata dalle stelle che brillano in campo crede nell’obiettivo, quelli che hanno la fortuna – e il merito – di essere Titolari Inamovibili sapranno che dietro di loro c’è chi li supporta, chi tifa per loro nonostante pagherebbe per poter entrare al posto loro. E saranno certi che quando dovranno uscire dal campo per stanchezza o infortunio non rischieranno di mandare all’aria un risultato, ma anzi daranno la possibilità ai compagni di dimostrare valore e partecipare con più gioia alla gloria finale.

    Il loro Capitano è Andrea Ranocchia, da dieci anni bandiera interista durante tutte le tempeste, e a lui e alla sua squadra ombra vanno gli applausi degli amanti dello sport più bello del mondo.

    11. L’Internazionale Milano F.C. 1908

    Ricapitolando: un campionato interamente giocato durante una pandemia, il Presidente bloccato in Cina, la crisi economica che ha investito (anche) il calcio, lo stadio da rinnovare, un allenatore dal carattere particolare e radici juventine, una brutale sconfitta in Champions League, giocatori smarriti da recuperare, il pandemonio creato dall’annuncio Superleague, una classifica che alle prime dieci giornate dava i nerazzurri relegati dopo la quarta posizione, persino il nuovo marchio e il nuovo inno da presentare.

    Ma chi, se non la Pazza Inter, poteva vincere questa scombinata edizione della Coppa Campioni d’Italia? Pazza squadra, nonostante i tentativi di riordinarla, pazza nonostante mostri oggi il volto più cinico e più gioioso degli ultimi dieci anni.

    Bisogna avere un caos dentro di sé, per generare uno scudetto danzante.

    Epilogo: 

    Ma allora, vi starete chiedendo cari tifosi interisti, “possiamo davvero svestire la maglia dell’ultimo decennio?” Certo che potete. Almeno fino a settembre, perché l’Inter resta pazza, e l’orizzonte è già pieno di nubi scure.
    Ma per oggi e per quest’anno, l’Inter è Campione d’Italia!

    Amala!

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