A wondrous, woven magic in bits of blue and gold
A tapestry to feel and see, impossible to hold
Il 19 giugno 1971, l’annus mirabilis nella storia della musica, Tapestry di Carole King scalza Sticky Fingers dei Rolling Stones dal primo posto della Billboard 200, la classifica degli album più venduti negli Stati Uniti; in quella stessa data anche It’s Too Late, la canzone di lancio dell’LP, si guadagna il numero uno, dominando per cinque settimane la classifica dei singoli. Si apre ufficialmente l’estate di Carole King: Tapestry, secondo album della cantautrice newyorkese, avrebbe mantenuto per quindici settimane consecutive il primo posto negli USA, cedendo il primato soltanto ad ottobre e rivelandosi un fenomeno senza precedenti. Nel momento di apogeo del rock, nel culmine della gloria postuma di Janis Joplin e mentre i Led Zeppelin sono consacrati come la band più popolare del pianeta, una ventinovenne ebrea cresciuta a Brooklyn e con l’ansia del palco diventa di colpo la voce in grado di parlare a un’intera generazione: una generazione di cui la King riesce a esprimere sogni e inquietudini attraverso un pugno di canzoni destinate all’immortalità.
Carole King e l’album dei record
Quando, nei primi giorni di quell’estate del 1971, si ritrova a svettare nelle classifiche americane (e di diversi altri paesi del mondo), Carole King non è esattamente una novellina. Al contrario la King, al secolo Carol Joan Klein, è un nome di punta della scena musicale da almeno un decennio: più precisamente da quando, nel gennaio del 1961, la sua dolcissima Will You Love Me Tomorrow si era attestata come il singolo più venduto in America nell’incisione delle Shirelles. Perché in coppia con il paroliere Gerry Goffin, conosciuto al college e da lei sposato nel 1959, Carole King aveva firmato alcuni fra i maggiori successi pop del decennio a venire: Take Good Care of My Baby di Bobby Vee, The Loco-Motion di Little Eva, Go Away Little Girl di Steve Lawrence, Pleasant Valley Sunday dei Monkees e (You Make Me Feel Like) A Natural Woman di Aretha Franklin, per citare giusto i casi più famosi.
Negli anni Sessanta, insomma, Carole King è il nome dietro una quantità di canzoni formidabili, incise all’epoca perfino dai Beatles e poi reinterpretate in centinaia di cover, ma ancora in pochi conoscono la sua voce: ha realizzato una mezza dozzina di singoli, di cui soltanto uno, It Might as Well Rain Until September, entrato nel 1962 nelle zone alte delle hit-parade, e un disco (Now That Everything’s Been Said, 1968) come parte del trio City. Nel 1970, in compenso, la Ode Record la convince a registrare il suo LP d’esordio, intitolato significativamente Writer, ma è con Tapestry, approdato nei negozi il 10 febbraio 1971, che la King si impone fra i nuovi idoli del pubblico americano e internazionale: oltre tredici milioni di copie vendute negli USA, quattro Grammy Award (miglior album, miglior singolo per It’s Too Late, miglior canzone per You’ve Got a Friend e miglior nuova artista) e una presenza fissa nelle classifiche dei dischi più importanti di sempre. Quali ingredienti hanno reso possibile un successo di tali proporzioni, e capace di perdurare a distanza di così tanto tempo?
Dodici canzoni fra passione e malinconia
Ascoltare Tapestry significa immergersi in dodici brani dotati della bellezza cristallina dei classici: le melodie hanno un’efficacia infallibile, tanto da stamparsi nella memoria con estrema facilità; e i versi, pur essendo intimi e specifici, trasmettono sensazioni e stati d’animo che ciascuno può ricondurre alla propria sfera esperienziale. L’album, del resto, arriva all’alba degli anni Settanta, quando l’ondata dei cantautori (e ancor più delle cantautrici), dopo i fermenti socio-politici del periodo precedente, sta esplorando terreni più intimisti e ‘confessionali’: nel 1970 Neil Young ha inciso After the Gold Rush, mentre in contemporanea con Tapestry esce l’album di debutto di Carly Simon e a giugno vedrà la luce Blue di Joni Mitchell. Di questa vena intimista, Tapestry è un esempio superbo: l’album dispiega un ventaglio di sfumature legate alle relazioni amorose, intrecciandole con qualche spunto autobiografico ma mantenendo sempre una dimensione universale.
L’apertura del disco, scandita dal ritmo trascinante di I Feel the Earth Move, descrive una perfetta sintomatologia del colpo di fulmine, con la voce della King, accompagnata dalla chitarra di Danny Kortchmar, che scivola da una tenerezza sognante a repentine esplosioni d’energia. Subito dopo, però, i toni si fanno più sommessi: la splendida So Far Away, insieme all’analoga Home Again, forma un commovente dittico sul senso di sradicamento e di solitudine, temi ripresi poco dopo pure in Way Over Yonder, che chiude il lato A dell’album con una pennellata gospel. In It’s Too Late, invece, la nostra Carole dipinge l’epilogo di una storia d’amore: il suo tono, nel sancire che «something inside has died», è malinconico ma deciso; l’enfasi melodrammatica propria delle vocalist degli anni Sessanta ha ceduto il posto a una lucidità ‘adulta’, per quanto non priva d’amarezza. È uno dei vertici del disco, da annoverare fra i capolavori del canzoniere della King.
Sull’amore e sull’amicizia
L’altro evergreen di Tapestry, uno di quei brani che hanno saputo trascendere il proprio tempo e che fanno ormai parte dell’immaginario collettivo, è You’ve Got a Friend. Se in Beautiful Carole King assume il ruolo dell’amica pronta a sostenere l’ascoltatore e a infondere sicurezza, al ritmo di un ritornello tanto naïf quanto incisivo («You’ve got to get up every morning with a smile in your face/ And show the world all the love in your heart»), You’ve Got a Friend costituisce l’inno all’amicizia per antonomasia, una dichiarazione di sostegno incondizionato («Winter, spring, summer or fall/ All you have to do is call») in cui la King riversa appieno il senso di empatia e di conforto che la musica può offrire. Registrata nel 1971 anche dal suo amico e collega James Taylor, che piazzerà la propria versione al numero uno negli Stati Uniti, You’ve Got a Friend resta probabilmente il titolo più famoso di tutto il repertorio della King.
E sono proprio James Taylor e la leggendaria Joni Mitchell a prestare le loro voci per i cori di You’ve Got a Friend e di Will You Love Me Tomorrow?, riproposta dall’autrice in una nuova, struggente incisione. Sempre sul versante del romanticismo si colloca la vivace Where You Lead, portata in classifica nello stesso periodo da Barbra Streisand, ma rilanciata soprattutto dal duetto realizzato nel 2000 dalla King insieme alla figlia Louise Goffin per la sigla della serie Una mamma per amica (in cui Carole si cimenterà pure come guest star). C’è ancora spazio, infine, per il divertente folk rock di Smackwater Jack, con tanto di pittoresca ambientazione western, e per le suggestioni ermetiche del brano del titolo: la visione surreale di un vagabondo dalla giacca variopinta e di una figura stregonesca ammantata di nero, evocati dalla King in uno dei suoi testi più poetici.
A tapestry to feel and see, impossible to hold
A suggellare il disco (che però, nella riedizione del 1999, viene chiuso dall’inedita Out in the Cold) è una canzone che non necessita di presentazioni: (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, già registrata nel 1967 da Aretha Franklin. Rispetto alla potenza e alla grinta di Aretha, la voce della King appare esile e delicata, ma in questo risiede forse il senso della nuova versione: Carole interpreta A Natural Woman con la semplicità e la spontaneità con cui la interpreterebbe una persona qualunque nell’atto di mettere a nudo i suoi sentimenti. Ed è, in fondo, il segreto di un album che dopo mezzo secolo non ha perso un grammo della propria magia: Tapestry è il porto sicuro in cui trovare riparo nei momenti di nostalgia o di tristezza, lo specchio in cui riconoscere desideri, timori e speranze che potrebbero appartenere a ognuno di noi.
Nel 1971 Carole King era la giovane donna che, sulla scia di Laura Nyro e Joni Mitchell, adoperava note e versi per tratteggiare il proprio universo interiore, e che con la sua sincerità spoglia ma carica di emozione sapeva arrivare dritta al cuore del pubblico, ispirando da lì in poi dozzine di epigoni. Ma Tapestry, con la sua fusione fra sensibilità newyorkese e sonorità della West Coast, non è solo un modello del cantautorato confessionale post-sessantottino: le sue dodici canzoni trascendono la loro epoca di appartenenza e ci ricordano che, a volte, ciò di cui abbiamo più bisogno è vedere il volto di una persona amata («It would be so fine to see your face at my door»). Proprio come fanno i vecchi amici…