A partire dalla metà degli anni Settanta, un decennio che in campo musicale è contraddistinto da innovazioni e commistioni di ogni tipo, c’è un elemento che si affaccia con sempre maggior insistenza nell’ambito del pop internazionale: si tratta dell’elettronica. Da un lato si registra un crescente interesse per le suggestioni offerte dalla tecnologia e dalla fantascienza, dall’altro un allontanamento dalla presunta ‘purezza’ del rock e del folk in direzione di una musica volutamente ibrida, artificiale, in grado di esprimere un senso di distacco da se stessi e dalla realtà. È in quest’ottica che dalla Germania salgono alla ribalta i Kraftwerk, padrini dell’elettronica, mentre l’italiano Giorgio Moroder rivoluzionerà la musica da discoteca (e non solo) a partire da I Feel Love, realizzata nel 1977 insieme a Donna Summer e destinata a segnare un autentico spartiacque. Da allora l’uso del sintetizzatore si sarebbe fatto via via più frequente, specialmente nei territori della dance e della new wave, per poi esplodere definitivamente all’alba del decennio a venire.
Nell’immaginario culturale, gli anni Ottanta sono stati infatti anche il decennio del synth-pop: il sintetizzatore sarebbe diventato uno dei marchi distintivi di un immenso filone della musica leggera, in grado di trasformare questa artificialità dai tratti futuristici nel suono di un’intera generazione. Spesso osteggiato da alcuni puristi del rock e del punk della prima ora, il cosiddetto synth-pop avrebbe conosciuto per tutto il decennio una stagione a dir poco gloriosa: dai Japan di David Sylvian agli Ultravox dell’era di Midge Ure; dalle brevi ma entusiasmanti parabole degli Yazoo di Alison Moyet e dei Talk Talk di Mark Hollis a quelle, assai più durature, di band ormai leggendarie quali i Depeche Mode e i New Order. Ad aprire la stagione del synthpop, nel 1979, sono i Tubeway Army di Gary Numan, con Are “Friends” Electric? e Cars, e i Buggles di Video Killed the Radio Star: l’Europa era già conquistata, ma la nuova onda dell’elettronica stava iniziando ad espandersi anche nel continente americano.
Per reimmergerci in questa nuova onda abbiamo provato pertanto a tracciare una rassegna, in ordine cronologico, delle canzoni synth-pop più famose degli anni Ottanta, selezionando quei brani che hanno scalato in maniera trasversale le classifiche di vendita dei più grandi mercati discografici: Stati Uniti e Gran Bretagna, ovviamente, ma pure paesi come Francia, Germania Ovest e Italia. Si tratta giocoforza di una selezione parziale, dalla quale sono rimasti esclusi molti pezzi celeberrimi, ma che al tempo non si sono imposti con la stessa forza su entrambe le sponde dell’Atlantico: basti pensare a Enola Gay degli Orchestral Manoeuvres in the Dark, Fade to Grey dei Visage e Smalltown Boy dei Bronski Beat, hit mitiche il cui successo si sarebbe concentrato però soprattutto in Europa; ma si potrebbero citare anche la trascinante cover di Gloria da parte di Laura Branigan o la svolta synth di Kate Bush con Running Up That Hill. Di seguito, ecco dunque dieci mega-best-seller degli anni Ottanta (non più di uno per artista) che ci hanno fatto amare il synth-pop…
Bette Davis Eyes – Kim Carnes
Quando muove i primi passi nell’industria discografica, all’alba degli anni Settanta, la californiana Kim Carnes fa parte del novero dei cantautori soft rock e country, generi popolarissimi in quel decennio in America; eppure l’improvvisa svolta della sua carriera sarebbe arrivata nel 1981 con Bette Davis Eyes, cover di un brano di Jackie De Shannon del 1974. Quello di Kim Carnes è un caso emblematico nella storia del synth-pop: lei e il suo produttore, Val Garay, recuperano infatti una canzone del passato e la ripropongono aggiornandola secondo le mode dell’epoca, con un arrangiamento modernissimo caratterizzato da quei riff del sintetizzatore divenuti ormai inconfondibili. L’operazione riesce a meraviglia: fra la primavera e l’estate del 1981, Bette Davis Eyes domina per nove settimane la classifica americana, viene proclamata da Billboard il singolo più venduto dell’anno, raggiunge i primi posti anche in Francia, Germania e Italia e si aggiudica i Grammy Award per la miglior registrazione e la miglior canzone. A questo pezzo magnifico, che già sintetizza la nuova musica pop degli anni Ottanta, abbiamo dedicato pure un dettagliato omaggio monografico in occasione del suo quarantennale.
Tainted Love – Soft Cell
Un’operazione analoga a quella compiuta da Kim Carnes con Bette Davis Eyes coinvolge nello stesso anno i Soft Cell, al secolo il cantante Marc Almond e il polistrumentista David Ball. Inglesi, poco più che ventenni, dopo essere stati messi alle strette dalla Phonogram, che pretende a tutti i costi una hit, i Soft Cell ripescano una canzone pressoché sconosciuta di Gloria Jones del 1965, Tainted Love, rivisitandola in chiave elettronica e affiancandola, nel lato A del singolo, a un’altra cover degli anni Sessanta, Where Did Our Love Go delle Supremes. Il risultato sarà un inaspettato trionfo: alla fine dell’estate del 1981 Tainted Love schizza al primo posto in Gran Bretagna, dove sarà il secondo singolo più venduto dell’annata, e l’anno successivo dominerà le classifiche anche in Germania e in diversi altri paesi. Il cavallo di battaglia dei Soft Cell occuperà inoltre per dieci mesi la classifica americana di Billboard, un record per quei tempi, e garantirà alla band una breve ma intensa popolarità in patria, fino al suo scioglimento nel 1984.
Don’t You Want Me – Human League
C’è solo una canzone che, nel 1981, supera il milione di copie vendute da Tainted Love in terra britannica, attestandosi come il maggior successo dell’anno del Regno Unito: si tratta di Don’t You Want Me degli Human League, che fra dicembre e gennaio spopola in Gran Bretagna per poi aggiudicarsi il primo posto anche negli Stati Uniti nell’estate del 1982. Artefici di questo perfetto brano da karaoke, che alla sommessa inquietudine della musica dei Soft Cell sostituisce il vivace duetto fra una voce maschile e una voce femminile (quelle del cantante Philip Oakey e della corista Susan Ann Sulley), sono gli Human League, band inglese nata nel 1977 che, dopo le prime sperimentazioni nell’ambito dell’elettronica, proprio nel 1981 attraversa una svolta più mainstream grazie a Dare, album considerato più ‘accessibile’. Don’t You Want Me è addirittura il quarto singolo tratto dal disco, pubblicato su insistenza della Virgin per sfruttare quanto più possibile la popolarità del gruppo; Philip Oakey, dal canto suo, era piuttosto contrariato da questa scelta, ma ciò nonostante Don’t You Want Me sarebbe diventata la canzone-simbolo degli Human League.
Sweet Dreams (Are Made of This) – Eurythmics
Tuttavia, se c’è un brano che incarna più di qualunque altro lo stile e l’essenza stessa del synth-pop, si tratta probabilmente di Sweet Dreams (Are Made of This), pubblicata dagli Eurythmics nel gennaio 1983, poche settimane dopo l’uscita dell’omonimo album. Sul martellante tappeto sonoro di Dave Stewart, identificabile fin dai primissimi istanti, si solleva la voce profonda e glaciale di Annie Lennox: si tratta di un connubio formidabile per un pezzo che, con quel suo incedere quasi robotico, suggella il senso di alienazione e di smarrimento dell’Inghilterra dell’età thatcheriana. Attivi fin dal 1980 e arrivati al loro secondo album, con Sweet Dreams (Are Made of This) gli Eurythmics otterranno la loro attesa consacrazione: dopo aver sfiorato la vetta in Gran Bretagna, nel corso del 1983 il singolo conquisterà il primo posto negli Stati Uniti e in Francia, portando Annie Lennox e Dave Stewart tra i capofila della “seconda invasione britannica”.
Relax – Frankie Goes to Hollywood
È un vero e proprio fenomeno quello che si abbatte sulle classifiche europee dal gennaio 1984, quando Relax ottiene il primo posto in Gran Bretagna, impresa ripetuta da lì a breve pure in Francia, Germania e Italia. Artefici di questo irresistibile tormentone sono i Frankie Goes to Hollywood, un’altra band inglese che, come i Soft Cell, gli Human League e gli Eurythmics, fin dalle sue origini punta a esplorare le potenzialità del synth-pop facendo tremare le discoteche di mezzo pianeta. Nel caso specifico, i Frankie Goes to Hollywood puntano non a caso sul cosiddetto stile high energy e su un testo ammiccante e carico di sottintesi sessuali, a cui si accompagna un video ambientato in un locale gay e che allude a pratiche sadomaso. L’alone trasgressivo di Relax non farà che accrescerne i consensi, tanto che nel 1985 il brano raggiungerà la Top 10 anche negli Stati Uniti; a consolidare il suo posto nell’immaginario collettivo, nel frattempo, sarà il regista Brian De Palma, che nel 1984 fa esibire i Frankie Goes to Hollywood in una scena di uno dei suoi film cult, Omicidio a luci rosse.
The Reflex – Duran Duran
E in una classifica dedicata al synth-pop e alle sue declinazioni, non poteva mancare la band per eccellenza della new wave britannica degli Eighties: i Duran Duran, che a partire dal loro folgorante esordio nel 1981 si sarebbero guadagnati un’immensa popolarità, costruita su un album leggendario come Rio e su canzoni quali Girls on Film, Hungry Like the Wolf e Save a Prayer. Difficile selezionare un singolo brano da un repertorio che include successi del calibro di The Wild Boys e A View to Kill; ma fra il maggio e il giugno del 1984, per la prima volta Simon Le Bon e soci riescono ad occupare quasi contemporaneamente la cima delle classifiche sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna grazie a The Reflex, terzo singolo tratto dall’album Seven and the Ragged Tiger. Sarà l’ennesimo, fortunatissimo tassello di una carriera fra le più illustri e longeve nell’ambito della “seconda invasione britannica”.
Shout – Tears for Fears
E sempre dalla Gran Bretagna proviene un altro gruppo iconico degli anni Ottanta, fra i più abili nel raccontare lo spirito di quel decennio attraverso canzoni che sono entrate a far parte della memoria non solo dei teenager dell’epoca, ma pure delle generazioni a venire: i Tears for Fears, nome d’arte del duo nato nel 1981 dalla collaborazione di Roland Orzabal e Curt Smith. Dopo aver debuttato nel 1983 con The Hurting, l’album contenente Mad World, è il successivo Songs from the Big Chair a consacrarne la popolarità internazionale, rendendoli una delle band più amate al mondo: merito in primo luogo di due brani intramontabili, Shout ed Everybody Wants to Rule the World, fra le massime vette della new wave di metà anni Ottanta. Shout, pubblicata nel novembre del 1984 in Gran Bretagna, con quel suo ritornello incalzante e un testo che lancia un’invettiva contro l’alienazione e il conformismo, si rivelerà il primo successo internazionale dei Tears for Fears, arrivando al primo posto in classifica negli Stati Uniti e in Germania.
Take On Me – A-ha
Una melodia che scivola con frenetica vitalità al ritmo di una tastiera synth; la voce limpida di Morten Harket che volteggia verso acuti irraggiungibili; un pionieristico video diretto da Steve Barron che, amalgamando live-action e sequenze animate, avrebbe scritto un capitolo nella storia di questa peculiare forma d’arte. Sono i tre ingredienti alla radice della strepitosa popolarità che, nell’autunno del 1985, accoglie Take On Me, cavallo di battaglia della band norvegese A-ha. La canzone era stata pubblicata già l’anno prima, ma gli A-ha erano riusciti a farsi apprezzare solo nella natia Norvegia; la Warner Bros, però, è convinta del potenziale di Take On Me, che nel 1985 viene rilanciata con un nuovo arrangiamento e quel video tutt’oggi famosissimo. Prima in classifica in Stati Uniti, Germania, Italia e in molti altri paesi, e con un secondo posto in Gran Bretagna, Take On Me darà avvio all’avventura discografica di un gruppo che, pur essendo rimasto legato al synth-pop anni Ottanta, dopo quattro decenni è ancora in attività.
West End Girls – Pet Shop Boys
Se agli A-ah servono oltre un anno e diversi tentativi prima che la loro Take On Me diventi il tormentone che conosciamo e canticchiamo ancora oggi, è perfino più lunga la scalata che dal 1984, anno della prima pubblicazione di West End Girls, nel gennaio del 1986 porterà i Pet Shop Boys al primo posto in classifica in Gran Bretagna, per poi replicare l’impresa a maggio negli Stati Uniti. È sotto i vessilli della EMI che il duo composto dal vocalist Neil Tennant e dal musicista Chris Lowe decide di riarrangiare e riregistrare il brano: un affresco del senso di solitudine e di paranoia nella cornice della metropoli londinese, in cui una progressiva discesa nella follia viene raccontata dalla voce di Neil Tennant con quel malinconico distacco che diverrà il suo tratto distintivo da interprete. West End Girls segnerà l’avvio, per i Pet Shop Boys, di una straordinaria parabola artistica, che dal loro album d’esordio, Please, li avrebbe portati a firmare numerose altre hit memorabili, da It’s a Sin a What Have I Done to Deserve This? alle geniali cover di Always On My Mind e Go West, consacrando la coppia Tennant/Lowe fra i protagonisti dell’evoluzione della musica elettronica degli anni Ottanta e Novanta.
Take My Breath Away – Berlin
Se nel 1977 I Feel Love di Donna Summer aveva inaugurato l’epoca d’oro della musica elettronica, è emblematico che a chiudere questa rassegna dei maggiori successi synth-pop degli anni Ottanta sia un altro brano scritto e prodotto da Giorgio Moroder, Take My Breath Away, affidato a una band californiana chiamata Berlin. E se fino a questo momento abbiamo incontrato principalmente pezzi da discoteca o comunque influenzati dalla dance, lo struggente singolo dei Berlin ci dimostra come le sonorità dei sintetizzatori possano essere applicate con splendidi risultati anche al genere delle ballad romantiche: nel caso specifico, Take My Breath Away viene composta per la colonna sonora del film Top Gun e farà guadagnare a Moroder il premio Oscar e il Golden Globe. Contrassegnata dalla suggestiva performance vocale di Teri Nunn, nel settembre 1986 Take My Breath Away arriva al primo posto in classifica negli Stati Uniti e due mesi più tardi anche in Gran Bretagna, affermandosi fra le grandi canzoni d’amore dell’intero decennio.