«From the cradle bars comes a beckoning voice/ It sends you spinning, you have no choice/ You hear laughter cracking through the walls/ It sends you spinning, you have no choice». I primi versi di Spellbound, con la voce di Siouxsie Sioux che ci dipinge uno scenario da thriller su una melodia sinistra e incalzante, già rappresentano una dichiarazione d’intenti: l’immersione in una notte nerissima, destinata a dipanarsi lungo l’arco di quarantuno minuti e di nove canzoni magnifiche. È il 6 giugno 1981 quando la Polydor pubblica Juju, quarto album di Siouxsie and the Banshees, e la dark wave è all’apice della sua popolarità: i Cure e i Bauhaus si sono ormai imposti fra le nuove realtà del panorama musicale britannico e, un anno prima, i Joy Division hanno concluso la loro breve parabola con il monumentale Closer. Siouxsie e soci, invece, riscuotono consensi sempre maggiori in tutta Europa, e con Juju firmano quello che, ad avviso di chi scrive, rimane il capolavoro della band londinese.
Siouxsie Sioux, la regina della notte
Una chioma corvina a incorniciare un viso che sembra una maschera bianca, con un teatrale make-up a evidenziare la linea geometrica delle sopracciglia e delle labbra: il volto di Siouxsie Sioux, al secolo Susan Janet Ballion, nata nel 1957 a Londra, è parte integrante dell’iconografia dark a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Co-fondatrice nel 1976, insieme al bassista Steven Severin, di un gruppo post-punk chiamato Siouxsie and the Banshees (le banshee sono spiriti femminili appartenenti al patrimonio del folklore celtico), Siouxsie riversa le inquietudini di un’adolescenza turbolenta nello stile inconfondibile della sua band, che da un lato guarda al ribellismo dei Sex Pistols, dall’altro anticipa la fascinazione per un immaginario gotico che da lì a breve avrebbe fatto anche la fortuna dei Cure e di un’infinità di loro epigoni. Il successo arriva all’improvviso nel 1978: prima con l’ipnotico singolo Hong Kong Garden, che scaraventa Siouxsie and the Banshees nella Top 10 britannica, e pochi mesi dopo con il loro formidabile album di debutto, The Scream.
L’ancor più tenebroso Join Hands del 1979 e l’eclettico Kaleidoscope del 1980 scandiscono il percorso di un gruppo che, nel 1981, dà vita a un progetto in cui le cupe atmosfere dei primi dischi si fondono con suggestioni tribali a cui si allude fin dal titolo dell’LP, Juju, un riferimento al nome della tradizione stregonesca dell’Africa occidentale. E questa volta, la potenza espressiva dei Banshees tocca vette inedite: al clima ‘notturno’ dei brani, richiamato tanto nelle sonorità quanto negli stessi versi, si mescolano l’incedere allucinato delle melodie e la voce di Siouxsie, che si fa di volta in volta ruggente o spettrale. Ascoltare Juju, in particolare per chi non avesse ancora avuto altri contatti con la discografia di Siouxsie and the Banshees, potrebbe essere paragonato in effetti alla partecipazione ad un macabro rituale, in cui ad ogni strofa si materializzano visioni minacciose e pennellate orrorifiche, contraddistinte però da una frenesia agli antipodi rispetto alla funerea ieraticità dei Joy Division di Closer.
Juju: un rituale demoniaco tra passione e follia
A costituire i singoli di lancio di Juju sono non a caso i due pezzi più trascinanti del lotto: l’impetuosa Spellbound, posta in apertura del disco, e Arabian Knights, in cui si alternano immagini di passione e di violenza («I heard a rumour, what have you done to her?»). Ma è tutto l’album, del resto, ad essere pervaso da un indefinibile senso di pericolo e da sottili echi mortiferi: «The night is still and the frost, it bites my face/ I wear my silence like a mask and murmur like a ghost», esclama Siouxsie nei primi versi di Halloween, inseguita dal basso tagliente di Severin. Al romanticismo ermetico e carico di simbolismi di Into the Light fa poi da contraltare il futuro distopico e dai tratti orwelliani raffigurato in Monitor, in cui si mescolano sofferenza e voyeurismo: «Then the victim stared up/ Looked strangely at the screen as if her pain was our fault/ But that’s entertainment, what we crave for inside».
In Night Shift, l’incedere ipnotico delle prime note svela un rapido precipizio verso la follia, evocando creature spettrali in uno scenario da incubo, attraversato dalle distorsioni sonore di Severin e del chitarrista John McGeoch. Infine, la furibonda cavalcata di Sin in My Heart e il malefico baccanale della conclusiva Voodoo Dolly racchiudono un altro brano memorabile: l’apoteosi granguignolesca di Head Cut, in cui al vivido espressionismo del testo («Shrunken heads under the bed/ The flies are humming, there’s a red under the bed») si intrecciano gli scatenati virtuosismi di Siouxsie, sacerdotessa dell’occulto pronta a far prendere voce a possessioni demoniache e angoscianti deliri. Perché Juju, nel suo tenebroso splendore, è soprattutto questo: un elogio della follia celebrato con intensità irresistibile da una band che, dopo quarant’anni, continua a ricordarci come sia possibile temere l’oscurità ed amarla in egual misura.