È stato spesso detto che il cinema di Kathryn Bigelow è più ‘testosteronico’ dei suoi colleghi maschi, ma ridurre le qualità dell’autrice di Strange days e Hurt Locker a questo sarebbe a dir poco riduttivo, se non offensivo. Il cinema ‘muscolare’ (altro termine spesso abusato) della Bigelow non va inteso come mera esibizione di eroi ed eroine d’azione impegnati in inverosimili battaglie contro forze soverchianti, ma bensì come un intenso tour de force, fisico ed emotivo, attraverso cui i suoi personaggi mettono in discussione il loro mondo e la loro identità per arrivare ad una consapevolezza superiore, o comunque più approfondita della precedente. È scontato che questo percorso comporterà grossi sacrifici per coloro che lo intraprendono, i set della Bigelow si trasformano infatti in prove registiche spesso estreme. Il rigore dell’autrice si riflette sia nella gestione del set sia nelle scelte produttive, sempre coerenti, anche quando non centra l’obiettivo alla perfezione.
Pur essendo stata premiata nel 2010 dall’Academy per The Hurt Locker (miglior film e miglior regia), Kathryn Bigelow resta un importante punto di riferimento per chi ama e segue autori che non hanno paura di fare film di genere, senza necessariamente dover inculcare un eventuale ‘messaggio’ ma che, tramite le loro opere, riescono comunque a trasmettere uno sguardo molto personale sul mondo.
Sebbene la sua filmografia non sia numerosa (solo 10 film nell’arco di più di 30 anni), crediamo che ogni sua pellicola sia stata un importante tassello in un percorso sorprendente, vivo e mai conciliante, sia nei confronti di chi la incasellava in un determinato genere sia rispetto alla cifra etica che viene fuori dalle sue dirompenti opere. Non staremo a disquisire dell’importanza della cineasta californiana nell’ambito del thriller, del noir e dell’action adrenalinico ma lasceremo che siano i film stessi a ‘parlare’. Anticipiamo solo che, dalle posizioni in classifica, si intuirà la nostra predilezione per il primo periodo della filmografia bigelowiana, quello più spiccatamente di genere e maggiormente iconico per la storia del cinema. Ciò non vuol dire però che le opere successive, in cui la cineasta indaga il reale e la Storia con le armi dei generi in cui è ferrata, non siano fondamentali all’interno del suo percorso filmico, anzi ne costituiscono l’evoluzione più naturale e matura.
Di seguito ecco la nostra classifica dei migliori film di Kathryn Bigelow, quelli da non perdere e guardare subito.
1. Strange Days (1995)
Strange Days è l’action-thriller del 1995 che ha ridefinito la parola futuribile. Con l’invenzione dello SQUID, macchina che permette di registrare le esperienze e spararle direttamente nella corteccia cerebrale di chiunque voglia usufruirne, ovviamente a pagamento, il film della Bigelow si proietta ben oltre il 1999 in cui è ambientato. L’indimenticabile “Babbo Natale dell’inconscio” Lenny Nero, interpretato da uno strepitoso Ralph Fiennes, spacciatore di esperienze iper-reali di seconda mano, era l’alfiere perfetto del nuovo millennio in cui, ingenuamente, ci accingevamo speranzosi ad entrare. Noir, fantascienza, storia d’amore (perché non hanno più dato ad Angela Basset altri ruoli così tosti?) e colonna sonora da urlo che andava dagli Skunk Anansie a Peter Gabriel, passando per Ray Manzarek, senza contare gli incredibili brani cantati dalla perennemente strafatta-inebetita dark lady Faith, interpretata da una arrochita e perfetta Juliette Lewis. Da ricordare l’immersivo piano-sequenza iniziale con cui si veniva proiettati nel mezzo di una rapina, totalmente in soggettiva, con cascatone finale nel grande buio della morte. Vederlo al cinema, su uno schermo degno di questo nome, all’epoca fu davvero come essere collegati allo SQUID.
Battuta da ricordare: “Il problema non è se sei paranoico, ma se sei abbastanza paranoico”.
2. Point Break (1991)
Keanu Reeves, il compianto Patrick Swayze, il surf e gli ex-presidenti. C’è qualcosa di più iconico? Il novellino dell’FBI, agente Johnny Utah (Reeves) deve fermare una banda di rapinatori di banca che indossano maschere di ex-presidenti americani. Indagando, entrerà in contatto con la banda di surfisti capeggiati dal carismatico Bodhi (Swayze ossigenato), che sta per bodhisattva, ovvero colui che nel buddismo, avendo esaurito il ciclo di esperienze terrene, ha raggiunto l’illuminazione ma, anziché trascendere ulteriormente, decide di rimanere tra gli uomini, per illuminare il sentiero ad altri. E infatti Bodhi aiuterà Johnny Utah a trovare se stesso tramite una particolare filosofia zen che prevede esperienze adrenaliniche come il surf in tunnel d’acqua enormi e il paracadutismo estremo. Noi che guardiamo il film, proprio come il giovane pivello dell’FBI, rimaniamo travolti dalla carica vitale di Bodhie e della sua banda. La sensazione di libertà che ci sembra letteralmente di assaporare con la scena del primo lancio col paracadute è vertiginosa. Le scene nei canaloni d’acqua sono tra le più belle mai viste su grande schermo insieme con quelle, struggenti, di Un mercoledì da leoni (1978). Se però nel film di John Milius il surf rappresentava il mito della giovinezza perduta, nonché il cemento dell’amicizia tra quattro giovani californiani, in Point Break la tavola che va sulle onde si fa metafora della scoperta di sé e dei propri limiti, al di là delle maschere sociali che dobbiamo indossare tutti i giorni. Bodhi sarà così un vero e proprio mentore spirituale per Johnny, inconsapevolmente alla ricerca del proprio del Sé interiore, o, secondo le religioni orientali, Atman. Non è un caso che nel finale egli getterà il distintivo, simbolo della sua vecchia identità, nel mare. Indimenticabile il collega di Utah, Pappas, interpretato da Gary Busey, prelevato direttamente dal film di Milius.
Battuta da ricordare: “Heyla salve, signore e signori. Siamo la banda degli ex presidenti. Vi chiediamo solo pochi minuti, vi stiamo fottendo da anni, qualche secondo in più non dovrebbe far differenza, non vi pare?”
3. Il buio si avvicina (1987)
Film-cult che ridefinì il vampire-movie negli anni’80 mescolando in modo originale atmosfere western con quelle tipiche dei succhiasangue, ma è chiaro fin da subito dove fosse il cuore della Bigelow. Infatti è risaputo che voleva girare un western ma, per trovare i finanziamenti, lo dovette tramutare in film di vampiri. Le terre assolate dell’Arizona fanno da controcampo perfetto a questo road-movie in cui il giovane Caleb Colton (Adrian Pasdar) si lascia irretire da una banda di vampiri punk che girano l’America a bordo di un camper. Così come il Johnny Utah di Point Break, anche Caleb è attratto da un mondo Altro che risveglia evidentemente parti sopite della sua personalità o, come direbbe lo psicologo Carl Gustav Jung, la sua Ombra. Cos’è il vampiro se non l’insieme di quegli elementi, aggressivi, seducenti e carismatici, che spesso vengono seppelliti nel buio del nostro inconscio, pronti però a riemergere, spesso in forme esplosive e incontrollabili? Il gruppo di vampiri capitanato dall’iconico Jesse Hooker di Lance Henriksen (la cui sola presenza aggiunge tonnellate di carisma al film) e dalla Diamondback di Jenette Goldstein (la leggendaria Vasquez di Aliens) rappresentano dunque l’occasione per Caleb di connettersi alla parte più profonda e oscura del proprio io, ma forse anche la più vera e libera, itinerario interiore esplorato più volte dalla regista. Il buio si avvicina comincia e si chiude circolarmente con un sole che tramonta all’inizio e sorge alla fine, a simboleggiare una ritrovata solarità per il destino dei protagonisti. L’ebbrezza che si prova non appena si diventa vampiri anticipa quella, analoga, di Intervista col vampiro del 1994. Ma, come accennato all’inizio, non importa che si tratti di vampiri o surfisti, ciò che conta è il percorso emotivo che i personaggi compiono nel momento in cui i entrano in contatto con contesti estremi che fanno mettere in discussione la loro identità e i loro principi. Non pochi punti in comune ci sono inoltre con il coevo Ragazzi perduti (1987), in cui Jason Patric veniva iniziato dalla banda di vampiri di Kiefer Sutherland. Tra le scene più iconiche del film ricordiamo quella in cui il piccolo vampiro Homer corre per salvarsi mentre il sole sta sorgendo e le fiamme lo consumano da dentro, il tutto girato con un rallenti molto efficace. Se parliamo di rallenti non possiamo però non citare l’assedio, topos del cinema western, in un capanno nel quale sono intrappolati i vampiri, a causa della luce del sole. Guardatevi questa scena e poi, se potete, recuperate un qualunque film di Sam Peckinpah, possibilmente Il mucchio selvaggio (1969). Niente male per una regista al suo secondo lungometraggio. Una curiosità: il tema dei vampiri in camper anticipa quello dei componenti del Nodo, comunità di vecchi hippies che, nel romanzo di Stephen King Doctor Sleep, sequel di Shining portato sullo schermo nel 2019 da Mike Flanagan, girano anch’essi l’America in dei camper, ma anziché succhiare il sangue, si cibano dell’energia psichica di giovanissime vittime. Altra presenza da ricordare, uno scatenato e perennemente sopra le righe Bill Paxton, presenza fissa dei film di James Cameron.
Battuta da ricordare: “Ascolta con attenzione. La senti?” “Ma che cosa?” “La notte! E’ assordante!”
4. The Hurt Locker (2008)
Se l’adrenalina è sempre stato uno degli elementi caratterizzanti della filmografia della Bigelow, in questo caso lo è anche come fattore di dipendenza da parte del protagonista, il sergente Will James, interpretato da un Jeremy Renner pre-Avengers (e anche da un Anthony Mackie pre-Falcon), artificiere dell’esercito americano impegnato in Iraq. Disinnescare bombe nelle assolate strade di Baghdad diventa il suo pane quotidiano, gli da quella scarica che neanche la più potente delle droghe riuscirebbe a fornirgli. Al contrario del Bodhi di Swayze che ci teneva alla vita dei suoi accoliti (almeno fino a un certo punto), il nostro James invece, pur di sentire il brivido della morte sfiorargli l’anima, mette a repentaglio la vita della sua squadra, creando non pochi problemi. Anche qui c’è un incipit col botto, in tutti i sensi: il tentativo di disinnesco di una bomba da parte del sergente Thompson, interpretato da Guy Pearce, si risolverà in tragedia. Se volete imparare come si gestisce la tensione al cinema guardatevi questa scena, gestita millimetricamente da una regia e un montaggio in stato di grazia, che si conclude con un l’impatto dell’esplosione, frastagliata in vari dettagli visivi in cui si vede il terriccio della strada gonfiarsi come una bolla e poi scagliato via come il povero Thompson. Con The Hurt Locker avviene un’importante cesura stilistica nella filmografia della Bigelow che, dopo due film di transizione come Il mistero dell’acqua (2000) e K19 (2002), passa dagli action adrenalinici dall’estetica più patinata a pellicole dall’impronta decisamente più realistica, caratterizzate da riprese in stile documentaristico. Inoltre con The Hurt Locker, termine che indica la cassetta in cui vengono riposti gli effetti personali dei militari morti in guerra, l’Academy si accorge della esistenza di una grande autrice.
Battuta da ricordare: “Non ho mai visto tanto esplosivo tutto insieme. Se devo morire, morirò comodo.”
5. Zero Dark Thirty (2012)
Il grado zero della filmografia della Bigelow, ma in senso positivo. La caccia a Osama Bin Laden, raccontata nell’arco di quasi 10 anni, dal punto di vista di Maya, immaginario agente-analista della CIA, interpretato da una superba Jessica Chastain, si trasforma nella storia di un’ossessione. Come nella miglior tradizione dei personaggi di un altro cineasta che ha non pochi punti in comune con la regista di San Carlos, e cioè Michael Mann. La dedizione ossessiva di Maya al suo lavoro è la stessa di Vincent Hannah in Heat – la sfida (1995), o di Will Graham in Manhunter (1986), nonché, ritornando alla filmografia bigelowiana, di Johnny Utah in Point Break, oppure della poliziotta Megan Turner in Blue Steel (1989). Maya persegue il suo obiettivo caparbiamente in un mondo dominato da maschi, in cui si troverà letteralmente sola, trattata con sufficienza dai suoi superiori e dai suoi colleghi che, se all’inizio la vedranno come una pivella, in seguito ne saranno intimoriti. Lei andrà avanti, non con la forza bruta, ma con la pazienza, l’intuizione e la capacità di analisi che la porteranno dritta all’obiettivo. Anche qui il personaggio principale, in cerca di se stesso, passa attraverso una trasformazione, non tramite azioni spericolate ma con l’esercizio dello sguardo. Maya spenderà infatti centinaia di ore a esaminare le registrazioni degli interrogatori e delle torture subite dai prigionieri nelle basi della CIA disseminate in Medioriente, per trovare il bandolo della matassa. In una sorta di messa in abisso, lo sguardo di Maya diventa anche quello di noi spettatori che, con lei, esaminiamo il reale, un tragico reale, alla ricerca di frammenti, indizi, scampoli di dicerie, mezze informazioni che portino a Osama Bin Laden, ma soprattutto a una risoluzione interna dell’energia psichica di Maya che ha bisogno di un obiettivo su cui concentrarsi e riversarsi. All’epoca suscitò molte polemiche per le scene iniziali di tortura ma è chiaro che alla Bigelow non interessava giustificare moralmente gli atti violenti della CIA sui prigionieri, ma solo mostrarceli come un dato di fatto. Come una spirale, il film si avvicina man mano sempre più alla cattura del criminale internazionale, fino agli ultimi magistrali 40 minuti in cui assistiamo all’attacco notturno, con elicotteri semi-invisibili e visione a infrarossi. In Zero Dark Thirty la Bigelow da il meglio di sé, con macchina a mano, sonoro ultra-realistico e montaggio serrato. Puro e semplice cinema d’azione applicato al Reale. Ciò che rimane però è lo sguardo di Jessica Chastain, alla fine, piangente e svuotata dal successo della sua decennale missione.
Battuta da ricordare: Maya rivolgendosi al suo superiore: “Tu vuoi solo che io becchi un qualsiasi Mullah che non conta niente così riuscirai a mettere sul tuo curriculum che quando eri in Pakistan hai preso un terrorista, ma la verità è che tu non lo conosci il Pakistan! E tu non conosci Al-Qāʿida! Tu dammi gli uomini che io ho chiesto per seguire questa pista, o l’unica cosa che aggiungerai al curriculum sarà quella di essere il primo capo di una base a comparire davanti al Congresso per aver bloccato gli sforzi per catturare o uccidere Bin Laden!”.
6. Detroit (2017)
Bigelow prosegue con la sua impietosa esplorazione del reale e della Storia tramite il linguaggio del cinema action più serrato. Tra il 23 e il 27 Luglio 1967, a Detroit, in seguito al duro intervento della polizia in un bar gestito da afroamericani privo di licenza, scoppiarono gravi disordini che misero a ferro a fuoco la città. Il film si concentra in particolare su un gravissimo evento accaduto all’Algiers Hotel, nel corso di una terribile notte durante la quale degli agenti di polizia malmenarono e poi uccisero dei ragazzi di colore che avevano osato passare delle ore in compagnia di due ragazze bianche. La Bigelow sbatte in faccia allo spettatore tutto quello che è successo durante quella notte da incubo, senza risparmiare nulla allo spettatore, tramite un atto di denuncia audiovisivo che è un pugno nello stomaco per lo spettatore. Quasi insostenibile per il livello di tensione, soprattutto psicologica, che si viene a creare, Detroit vive della fotografia di Berry Ackroyd, che è riuscito a ricreare i colori e le tonalità che nel nostro immaginario leghiamo inevitabilmente a quegli anni, facendoci percepire tutto il sudore, il sangue e la rabbia che sprizzavano da quella situazione. Ad ora rimane l’ultimo film della Bigelow in ordine cronologico, nonché quello dall’impatto più forte e traumatico.
Battuta da ricordare: “Che è successo in quel motel?”
7. Blue Steel – Bersaglio mortale (1989)
In Jamie Lee Curtis la Bigelow trova una tra le incarnazioni più felici del suo tipico eroe posto in situazioni-limite e costretto a riconfigurare la propria identità e i principi su cui si basa. La giovane agente di polizia Megan Turner, stalkerizzata dal maniaco Eugene Hunt (interpretato dal bravissimo Ron Silver) col quale ha avuto una breve e improvvida relazione, scoprirà dentro di sé delle zone d’ombra, che la portano ad avere più elementi in comune con lo psicopatico che con la gente normale. Tale riconoscimento la spingerà ad una crisi, da cui potrà soltanto rinascere o soccombere definitivamente. Con questo film lo stile visivo della Bigelow si affina e la plasticità dei corpi degli attori, a volte feriti o tesi nello sforzo di un inseguimento o di un corpo a corpo, diventa materia poetica da plasmare per lo sguardo etico dell’autrice.
Battuta da ricordare: “Tu sei Dio Eugene. Tu sei unico Eugene! Prega per loro che il tuo nome li spaventi. Che il figlio della giustizia sorga e ci serbi protezione sotto le sue grandi ali. Non sei solo Eugene!”
8. K-19 (2002)
Film di transizione, come si è accennato, con cui la Bigelow comincia a veleggiare verso quel cinema aderente alla realtà, anzi alla Storia, filtrato da una messa in scena tesa, che avrebbe trovato in The Hurt Locker la sua compiutezza e maturazione. Nel 1961 il sottomarino nucleare russo K-19 ebbe un problema di raffreddamento del reattore durante un’esercitazione nell’Atlantico e molti marinai dovettero sacrificare le loro vite, contaminandosi con le radiazioni, nel tentativo di riparare il guasto ed evitare un’esplosione termonucleare in acque statunitensi che, con tutta probabilità, avrebbe provocato la Terza Guerra Mondiale. Pellicola dall’andamento progressivo, che si prende i suoi tempi, e con una seconda parte al cardiopalma in cui si soffre con l’eroico equipaggio del sommergibile pronto a sacrificarsi. Ricostruzione impeccabile degli interni del sottomarino con stratagemmi tecnici ingegnosi (mono-binari nascosti nelle pareti e fili appesi al soffitto per le steadycam telecomandate) per realizzare le riprese in spazi ristrettissimi. È nella rigorosità della messa in scena che ritroviamo la cifra registica della Bigelow in un film permeato di una certa retorica che viene però riscattato dalla grande commozione ed empatia scatenate nella parte finale in cui assistiamo allo spirito di abnegazione russo.
Battuta da ricordare: “Nessun marinaio ha mai avuto un’imbarcazione come il K-19. È il miglior sommergibile del mondo. Noi non falliremo!”
9. The Loveless (1981)
Questo travolgente esordio registico della Bigelow, in collaborazione con l’amico Monty Montgomery, recupera i giovani ribelli in moto (bikers), icone del cinema anni ’50, ma ne raffredda gli animi tramite una messa in scena quasi rarefatta, composta di inquadrature particolarmente lunghe che si richiamano alla pittura (Hopper in particolare) e una messa in scena straniante in cui Vance, il capo dei motociclisti (un giovanissimo Willem Dafoe), deve vedersela con un padre violento che accampa diritti, anche sessuali, sulla giovane figlia con cui il capo dei bikers ha stretto una relazione. I canoni delle pellicole sui giovani ribelli vengono ribaltati e la Bigelow comincia a trovare una sua voce autoriale, ben riconoscibile in certe situazioni estreme e nell’abbozzo di una comunità microcosmica, che ritroveremo, in altre forme, nelle pellicole successive. Visto con gli occhi di oggi, diremmo che le atmosfere del film, calate in questi anni ’50 quasi onirici ma attraversati da improvvise esplosioni di violenza, sono decisamente lynchane.
Battuta da ricordare: “Non si può mai dire in un giorno come questo. Le cose potrebbero andare lisce un momento e poi, improvvisamente, prima che tu te ne accorga, sei acqua passata.”
10. Il mistero dell’acqua (2000)
Torbido noir in cui una coppia (Sean Penn e Catherine McCormack), fotografa lei e poeta vincitore di Pulitzer lui, indaga, per scopi artistici, su un efferato duplice omicidio avvenuto nel 1873 in Nuova Scozia. Nel corso del film i due si impelagano col il fratello di lui (Josh Lucas) con fidanzata attraente (Elizabeth Hurley, motivo di attrito) e affrontano colpe sepolte nonché scheletri nell’armadio. Ma è nella vicenda, ambientata più di un secolo prima, della giovane Maren (Sarah Polley), omicida per difendere la sua libertà sessuale, che la Bigelow ripone maggior interesse. Atmosfere alla Polanski per un film che evidentemente la cineasta non sentiva fino in fondo, visto il risultato altalenante e la tenuta narrativa decisamente più riuscita nella parte ambientata nel 1873. Mezzo passo falso cinque anni dopo Strange Days che fece temere per la carriera della nostra Bigelow.
Battuta da ricordare: “Usare un’ascia richiede intimità. Pensa quanto devi essere vicino alla vittima.”