Nel 1986, mentre in Italia non sapevamo neanche cosa fosse un profiler o cosa significasse stilare il profilo psicologico di un criminale seriale per prevenirne le mosse e catturarlo, Michael Mann realizzava Manhunter – frammenti di un omicidio, uno dei migliori crime-thriller-noir degli anni Ottanta, che uscì nelle sale italiane il 27 Marzo 1987. Non solo Manhunter pone le basi per tutto il futuro sotto-genere dei thriller legati ai serial killer, ma il film di Mann spazza via il crime-movie tradizionale, fatto di indagini, sparatorie ed inseguimenti raffreddandolo, sia come ritmo che come messa in scena. Non ci si lasci ingannare però dall’apparente freddezza. Le emozioni che scuotono i personaggi e scorrono sotterraneamente per tutto il film sono tutt’altro che tiepide. Non è però più un semplice film di indagine ma bensì un “interior design movie”, dove per interior si intendono sia gli interni degli appartamenti, sia i meandri psicologici dei personaggi che abitano quelle case.
La trama
Come molti sapranno Manhunter è il primo adattamento di Red Dragon, romanzo di Thomas Harris del 1981 che introduce per la prima volta il mitico personaggio di Hannibal Lecter, che poi sarebbe stato nuovamente trasposto sullo schermo nel 2002 da Brett Ratner, in maniera sicuramente più fedele al libro, ma meno originale. Va anche detto che qui il ruolo di Lecktor (così viene chiamato nel film, invece di Lecter) non è prominente come lo sarebbe diventato nel successivo adattamento degli anni Duemila, ovvero dopo la consacrazione di Hannibal come icona del male ne Il silenzio degli innocenti (1991). In Manhunter il centro di tutto è Will Graham, il profiler dell’FBI interpretato da un William Petersen (futuro interprete di CSI, ma soprattutto del coevo e altrettanto folgorante Vivere e morie a Los Angeles [1985]) al suo meglio.
Un assassino seriale, soprannominato Dente di fata (Tooth Fairy in originale) per via della pessima abitudine di mordere le sue vittime, nelle notti di luna piena fa fuori intere famiglie, apparentemente senza una ragione o uno schema logico. La ricerca del colpevole diventa una vera e propria ossessione per Graham, come è nel carattere di quasi tutti i personaggi di Mann. Il metodo di indagine del detective è peculiare: ripercorrendo i luoghi del delitto egli si immerge nel punto di vista dell’assassino, ipotizzando i suoi pensieri e le sue motivazioni, interiorizzandone la psicologia e rimanendone inevitabilmente infettato. Così era successo infatti col dottor Lecktor, con cui ebbe uno scontro quasi fatale, tra l’altro causandogli gravi disturbi alla sua sanità mentale. Sarà proprio a Lecktor (interpretato dal pur bravissimo Brian Cox, non carismatico quanto Anthony Hopkins) che il nostro Graham si rivolgerà per avere consigli, proprio come farà in futuro Clarice Sterling ne Il silenzio degli innocenti.
Il look del film
Come accennato prima, il thriller si raffredda, sia nel senso di un ritmo più pacato dell’andamento narrativo, sia visivamente. Il look del film viene curato dal direttore della fotografia Dante Spinotti, che da allora collaborerà a tutti i lavori successivi di Mann. Quest’ultimo darà vita ad un thriller atipico, fatto di ampi spazi esterni e di interni spesso raggelanti, in cui sono calati i personaggi.
Il verde sarà il colore della casa dell’assassino, con qualche sprazzo di violetto e magenta. Il verde, solitamente associato alla serenità, diventa qui un colore del controllo assoluto che Dente di fata vuole avere sulle sue vittime. Controllo che non sarà totale, in quanto minacciato da quelle presenze di violetto che affiorano e che rappresentano la sua incapacità di resistere alle pulsioni. Il blu profondo o, nelle parole dello stesso Spinotti, “blu Ande intenso”, sarà invece il colore romantico della casa di Graham e dei momenti intimi con la moglie.
Il bianco asettico è la tonalità degli incontri con Lecktor all’interno del manicomio criminale. In queste scene Graham scandaglia gli oggetti del geniale e malvagio psichiatra-cannibale: in mezzo a tutto quel bianco ci sono anche qui sprazzi di violetto, come a casa dell’assassino. Graham è connesso alla psicologia di Dente di Fata e degli psicopatici in generale, la sua visione ne è rimasta invariabilmente infettata. All’uscita dal manicomio infatti il detective sarà sconvolto: la vista del prato all’esterno è distorta, l’erba sbarbaglia di colori surreali, vicini al punto di vista di Lecktor e di Tooth Fairy.
L’atto del guardare
I design interni delle case, le scenografie, gli oggetti, si fanno essi stessi personaggi, comunicano stati d’animo. Si fanno specchi delle psicologie interiori di coloro che li abitano così come il killer Dente di fata vuole guardarsi nei frammenti di specchio che applica sulle palpebre delle vittime dopo averle uccise. Perché vuole essere desiderato e vuole vedere sé stesso come oggetto desiderato. Vuole essere riconosciuto e vuole piacere. Gli interni delle case delle vittime diverranno dei teatri in cui l’assassino offre uno spettacolo a sé stesso, nonché dei luoghi su cui lo sguardo di Graham si soffermerà a lungo per decifrarne gli eventi delittuosi che vi sono avvenuti. L’atto del guardare costituirà dunque il cardine tematico di tutto il film, nonché la chiave per arrivare all’assassino.
Ci avviciniamo all’assassino
Proprio alla psicologia dell’assassino, il film ci farà pericolosamente avvicinare. Nella sua storia con Reba Mc Claine, (interpretata da una toccante Joan Allen in uno dei suoi primi ruoli importanti) la ragazza non-vedente che si intenerirà per i modi gentili dell’uomo conosciuto sul luogo di lavoro, ci viene mostrato un lato decisamente vulnerabile di Tooth Fairy. Dopo aver fatto l’amore con lei, sulle note della bellissima This big Hush degli Shriekback, egli si commuoverà addirittura, facendoci perfino dubitare riguardo le sue intenzioni omicide nei confronti della prossima famiglia. Non sarà difficile per lo spettatore provare empatia per un uomo il cui difetto al labbro sarà stato certamente una tara non indifferente nei rapporti sociali, soprattutto con l’altro sesso. Facciamo così conoscenza con la fragile psicologia del killer, il quale si sentirà terribilmente lusingato dalle attenzioni della ragazza ma reagirà anche in maniera infantile alla vista di lei che semplicemente saluta un collega che l’ha accompagnata a casa. Anche se la reazione sarà spropositata, condividiamo comunque la delusione dell’assassino nel momento in cui crede che la donna amata non sia soltanto sua. Tutto questo avvicinerà terribilmente noi spettatori all’interiorità del killer, facendocene comprendere alcuni meccanismi.
La tigre
Durante la breve storia con Reba assistiamo anche a un’altra scena importante: per far colpo su di lei, ma anche per farle provare sensazioni tattili gratificanti, Francis Dollarhyde (questo il nome di Tooth Fairy, non è uno spoiler perché non costituisce alcuna rivelazione nell’economia narrativa del film) la porta in uno studio veterinario, evidentemente di uno zoo, dove tengono una tigre sedata per incapsularle un dente. La ragazza non-vedente trarrà sensazioni quasi erotiche dal contatto col pelo della tigre, o almeno così verranno tradotte dalla particolare sensibilità del serial killer, che andrà in estasi mentre la donna tocca il grosso felino. Non è un caso che in questa scena ci sia proprio la tigre, se pensiamo all’ossessione di Dollarhyde per il dipinto di William Blake del dragone rosso con la ragazza vestita di sole, figure presenti nell’apocalisse di San Giovanni (ricordiamo anche che in alcune scene tagliate, sul corpo dell’attore Tom Noonan era stato appunto tatuato un drago ma il risultato non fu soddisfacente per Mann). La tigre si ricollega infatti ad un’altra famosa opera del visionario inglese adorato dal killer, stavolta in forma di poesia, intitolata appunto “La tigre” di cui ricordiamo qui i versi di apertura: “Tigre! Tigre! Divampante fulgore / Nelle foreste della notte / Quale fu l’immortale mano o l’occhio / Ch’ebbe la forza di formare la tua agghiacciante simmetria?”
Il montaggio e la regia
Il montaggio non è serrato, se non nello showdown finale, e il regista si prende tutto il tempo per mostrarci le spettacolari inquadrature totali degli interni o dei paesaggi in cui i personaggi sono calati come figurine all’interno di un quadro, del quale non sono necessariamente protagonisti. A volte i personaggi sono decentrati rispetto agli equilibri compositivi dell’inquadratura. Per esempio nella scena in cui Will Graham è al telefono con Lecktor per una conversazione fondamentale, la poltrona in cui è affondato il corpo del detective si trova nell’angolo in basso a destra del fotogramma. Il resto dell’inquadratura è occupato dal finestrone in cui intravediamo il paesaggio notturno, tinto di blu, di un palazzone di Atlanta. Se ripensiamo al blu profondo utilizzato per caratterizzare i momenti intimi di Graham con la moglie, allora questa conversazione telefonica con Lecktor assume un significato sconvolgente, suggerendo un’intimità tra il protagonista e il killer seriale più famoso della storia del cinema, per certi versi analoga a quella con la consorte. Protagonista è dunque tutto l’insieme, ovvero l’ambiente, artificiale o naturale, con cui il corpo dell’attore interagisce e ogni quadro composto da Mann e Spinotti esprime un determinato stato d’animo.
I dialoghi
I dialoghi sono scarni, non ci sono spiegoni: si lascia allo spettatore il gusto di capire da sé alcune cose e unire puntini da soli. C’è a tratti il monologo interiore di Graham quando visita i luoghi del delitto ma lì è diverso: entriamo nella sua ossessione, ne rimaniamo impigliati anche noi. L’unico dialogo che riassume e spiega alcuni eventi è quello tra Graham e il figlioletto di una decina d’anni mentre sono al supermercato. Egli non fa mistero al figlio del pericolo che stanno correndo in quanto l’assassino è adesso sulle sue tracce e, sorprendentemente, gli spiega, in termini comprensibili a un bambino, il suo metodo di indagine (“Con la mia immaginazione cercavo di immedesimarmi nell’assassino, così avrei capito perché l’aveva fatto, mi avrebbe aiutato a trovarlo”). Gli racconta perfino lo scontro avuto con Lecktor e le conseguenze psicologiche che ne erano derivate. Alla domanda del figlio riguardo quell’esperienza traumatica: ”E i pensieri che avevi erano così tremendi?”, Will risponderà: “Oh Kevin, erano i peggiori del mondo”. In quel momento è come se lo raccontasse anche al bambino interiore nascosto in ognuno di noi che vuole sentirsi dire la verità dai genitori, anche quando è terribile, perché in fondo non sopportiamo che ci si menta. Ecco dunque che la trama del film si trasforma in una sorta di fiaba nera raccontata a un bambino.
Lo showdown finale (Spoiler alert!)
Infatti nel finale l’eroe si ficcherà nella tana dell’orco per salvare una fanciulla. La macchina della polizia di Graham e Crawford (il suo capo interpretato dal compianto Dennis Farina) corre nel buio più nero della pece per arrivare a casa di Dollarhyde dove sta per compiersi un nuovo assassinio. Ricorda quasi la corsa in auto dei drughi di Arancia meccanica (1971), o di Terence Stamp nell’episodio felliniano di Tre passi nel delirio (1968). Non c’è il paesaggio notturno attorno all’auto, ma solo buio pesto. Stiamo entrando in un’altra dimensione, quella dell’irrealtà e dell’incubo. Il rifugio di Dente di Fata è una casa immersa nella buia campagna, quasi una versione post-moderna della casetta della strega di Hansel e Gretel. Dentro non ci sono i due fratellini della fiaba ma una donna cieca, che non ha saputo guardare nell’animo dell’uomo che le stava accanto e che sta per pagarne le conseguenze.
L’iconica irruzione di Graham nella casa, sulle note della martellante In-a-Gadda-Da -Vida degli Iron Butterfly, è ripresa con un ralenti estremo: il detective viene verso la macchina da presa, ovvero verso lo spettatore e, rompendo la vetrata della casa, squarcia il velo che ci teneva al sicuro. Nessuno è più indenne adesso: né l’assassino ma nemmeno noi spettatori e le nostre coscienze, turbate dai desideri di Dollarhyde e dal suo mondo interiore del quale il film ci ha reso partecipi. La rabbia trattenuta da Graham per tutto il film finalmente esplode, avventatamente e incoscientemente, contro la vetrata della casa, infrangendo anche tutto il ritmo compositivo del film.
A questo punto la velocità dell’azione si impenna improvvisamente. Tutto accade velocemente: prima la colluttazione, poi la sparatoria, Dollarhyde prende il fucile, squarcia anche lui una barriera, una parete di cartone, fa fuori un poliziotto e ne ferisce altri. Tutto avviene con un montaggio sporco, quasi alla Godard, gli stacchi non rispettano la continuità dei movimenti dei personaggi, alcuni movimenti vengono ripetuti dal montaggio, alcuni al ralenti, altri no, tutto è calato in un’atmosfera molto irreale. Mann riprende con macchine da presa multiple, settate su diversi frame-rate, ovvero a 24, 36, 72, e infine 90 fotogrammi al secondo, per ottenere un risultato visivo volutamente squilibrato, spezzato. Dopo un film che per tutto il tempo è stato formalmente perfetto abbiamo un finale prorompente che spezza tutti gli equilibri compositivi fin qui mantenuti. Il corpo dell’assassino non viene solo crivellato ma scomposto dal montaggio e dai differenti settaggi delle macchine da presa con cui è stato girato. Il risultato è sporco, strano, surreale, eppure grandioso. Chapeau a Mann!
Dopo lo scontro a fuoco vediamo le sagome in controluce di Graham e Crawford, assorti e stremati, davanti al lago antistante la casa di Dollarhyde, immersi in una luce crepuscolare dalla bellezza quasi metafisica. Il protagonista tiene la testa reclinata di lato. Con uno stacco successivo Mann ci mostra il controcampo di Graham in primo piano, con la testa ancora reclinata nella stessa posizione. Dalla luce e dagli abiti intuiamo però che il contesto è diverso e che ci troviamo sulla spiaggia davanti la casa del detective che viene raggiunto dalla moglie e dal figlio. C’è dunque una ellisse temporale importante tra le due inquadrature: l’incubo è finito, le ferite sono ancora presenti sul volto del detective ma i traumi psicologici delle passate esperienze sono stati, se non superati, almeno accettati e integrati.
Le influenze di Manhunter
E’ con questo film che Mann consoliderà il suo stile e la sua poetica, presentandoci tra l’altro (dopo il James Caan di Strade violente [1981]) uno dei suoi primi “professional”, ovvero personaggi professionisti di altissimo livello nei propri campi, che si dedicano in modo assolutizzante al loro lavoro facendolo diventare una vera e propria ossessione. La stessa dedizione e determinazione la ritroveremo infatti nel Vincent Hannah/Al Pacino e nel Neil Mc Cauley/De Niro di Heat (1995), nel Lowell Bregman (ancora Pacino) di Insider (1999), nel sicario Vincent/Tom Cruise di Collateral (2004), negli agenti infiltrati Crockett/Colin Farrell e Rico/Jamie Foxx di Miami Vice (2006), nel rapinatore Dillinger/Johnny Depp di Nemico pubblico (2009).
Non solo ma, come abbiamo accennato, Manhunter getterà anche le basi dei thriller sui serial killer come, oltre al già citato Silenzio degli innocenti, Seven (1995), Il collezionista d’ossa (1999), Zodiac (2007) e tanti altri. Anche l’ossessività dei personaggi e lo stile rarefatto di una serie come True detective (2014-2019) risente in certo qual modo della poetica visiva e tematica di Mann. Tra le influenze maggiori della pellicola di Mann non possiamo non citare la bellissima e originale serie (purtroppo interrotta alla seconda stagione), prodotta da David Fincher per Netflix Mindhunter (2017-2019), che addirittura riecheggia anche nel titolo il seminale film di Mann. La serie parla, reinventandola, della vicenda dei primissimi profiler dell’FBI che alla fine degli anni’70, rivoluzionando i metodi di indagine, cominciarono a intervistare i killer seriali nelle prigioni per ricavarne profili psicologici, utili alla cattura di altri loro “colleghi”. Manhunter rimane però una mosca bianca nel genere, per lo stile, la tensione sottesa, il modo di girare e la poetica insiti nell’opera, difficilmente ripetibili.