Mentre sale la spasmodica attesa per il kolossal fantascientifico di Denis Villeneuve Dune, che proprio oggi viene presentato al Festival di Venezia e che sarà distribuito nelle sale italiane il 16 Settembre, andare a vedere il documentario Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich, già presentato a Cannes 2013 e in uscita per la prima volta nei cinema italiani il 6 Settembre, potrebbe essere un ottimo modo per avvicinarsi al mondo ideato da Frank Herbert, da una prospettiva inedita e sorprendente. Se molti conoscono infatti la precedente trasposizione cinematografica del romanzo cult di Herbert ad opera di David Lynch, forse non tutti sapranno che nel 1974 ci fu un primo ambizioso tentativo di realizzare un grandioso film basato su Dune da parte di quel folle di Alejandro Jodorowsky.
Perché il Dune di Jodorowski è uno tra i più importanti nella lista di film mai realizzati, ma a lungo immaginati e lavorati, al pari de Il viaggio di G. Mastorna di Fellini o del Napoleone di Kubrick? Oltre che per l’alone di leggenda che avvolge ormai il progetto da anni, per l’importanza dei talenti coinvolti, tutti reclutati in seguito in successive produzioni, probabilmente per la sotterranea ed enorme influenza che esso ha avuto su tanto immaginario fantascientifico cinematografico, paradossalmente pur non essendo mai stato realizzato. Il Dune di Jodorowsky è un oggetto filmico perduto, il cui grado di carisma leggendario è pari all’arca che cercava Indiana Jones, un fantasma che infesta e aleggia negli interstizi del cinema sci-fi, inafferrabile, eppure presente, anzi oseremmo dire senziente.
Andiamo dunque a scoprire i 5 motivi per vedere Jodorowsky’s Dune , soprattutto in vista dell’imminente uscita del Dune di Villeneuve.
1. Jodorowsky psicomago eclettico e visionario
Come un personaggio rinascimentale Alejandro Jodorowsky è artista dai molteplici talenti: autore e attore teatrale (surrealista), performer artistico, scrittore, poeta, regista cinematografico, sceneggiatore di film e fumetti, psicomago, lettore di tarocchi. Riguardo gli ultimi due appellativi sarebbe difficile chiarirli esaurientemente in questa sede. Diciamo solo che l’artista cileno, di origine russa e trasferitosi a Parigi, si è sempre distinto per aver intrapreso un percorso unico e originale che, partendo dalle provocatorie performance teatrali con cui, negli anni ’60, stupiva e disturbava la borghesia di Santiago del Cile, tramite il cosiddetto teatro Panico con cui voleva provocare degli shock negli spettatori, approdò ad una visione esoterica della realtà, che contempla, junghianamente, l’inconscio come mare Magnum in cui le nostre coscienze sono immerse e interconnesse da tempo.
Così come le sue performance artistiche, anche la sua disciplina, la psicomagia, tende a creare dei piccoli shock emozionali (Battiato docet), o cortocircuiti, nell’inconscio dei ‘pazienti’ che, tramite specifici atti prescritti dal mago (spesso strani ed eccentrici), si liberano delle catene che li legano a condizionamenti familiari, culturali e sociali, ritrovando la scintilla originale e più vera della propria essenza interiore. In tale visione si colloca anche la lettura dei tarocchi proposta da Jodorowsky, intesa come percorso iniziatico interiore in cui i cosiddetti Arcani (ovvero figure archetipiche ideate secoli fa, come per esempio il Bagatto, l’Appeso e la Torre per citare i più famosi) diventano specchi in cui la propria anima, o la propria psiche, possa riconoscere parti di sé.
2. Dune come espressione dello Zeitgeist del tempo
Non ci siamo addentrati nella filosofia di Jodorowsky per pura acribia intellettuale, ma solo perché così diventa più facile intuire l’humus esistenziale e filosofico in cui è maturato il progetto Dune. Non è un caso che il regista si sia appassionato proprio al romanzo di Herbert in cui al centro di tutto sta la Spezia, una sostanza psicotropa che permette di allargare gli orizzonti della propria coscienza e abbattere le barriere dello spazio e del tempo per guadagnare una sorta di prescienza, ovvero la capacità di vedere chiaramente sia le vite passate dei propri antenati, sia i possibili futuri che ci attendono, nonché la facoltà di viaggiare nell’universo, di fatto annullando i tradizionali limiti spazio-temporali.
Attorno a questo, Herbert costruì una trama intrisa di coscienza ecologica e istanze ribelli nei confronti del sistema di sfruttamento capitalista: i Fremen (Free Men, uomini liberi) abitanti autoctoni del desertico pianeta Arrakis (o Dune), colonia sfruttata per i suoi immensi giacimenti di Spezia, necessari alla Gilda Spaziale dei commercianti, rispettano, conservano e idolatrano l’acqua, così scarsa nel loro habitat, in tutte le sue forme. Essi hanno dunque sviluppato un sistema di vita totalmente incentrato sulla conservazione dell’acqua e dell’umidità, nonché sulla coabitazione con gli enormi vermi della sabbia, che secernono il melange, sostanza da cui si ricava la Spezia. In questo contesto si inseriscono le vicende delle nobili case Atreides e Harkonnen che si contendono il controllo del pianeta, con l’imperatore galattico Padishah Shaddam IV a tirare i fili nell’ombra. Gli Atreides guidati dal coraggioso e virtuoso Duca Leto si contrappongono ai malvagi Harkonnen, dominati dal folle e crudele barone Vladimir Harkonnen. Come se non bastasse in questo quadro si inserisce la scuola di Reverende Madri (sorta di sacerdotesse-maghe) Bene Gesserit, che nutrono le coscienze delle popolazioni di Arrakis con leggende riguardanti l’avvento di un fantomatico Kwisatz Haderach, una sorta di messia dai magici poteri che guiderà il popolo dei Fremen verso l’emancipazione.
Non stupisce dunque che tali tematiche, non solo abbiano coinvolto Jodorowsky, ma abbiano reso il libro di Herbert, pubblicato nel 1965, un successo istantaneo, soprattutto nella nuova generazione degli anni’60 che poteva riconoscersi sia nelle istanze ribelli dei Fremen, che volevano riscattarsi da popolo colonizzato e sfruttato per le loro risorse a nazione fautrice del proprio destino, sia nel percorso di formazione del giovane Paul Atreides, figlio del duca Leto, il quale imparerà ad allargare gli orizzonti della propria coscienza e ad utilizzarne le risorse nascoste, grazie all’assunzione della Spezia. Qui il parallelo con le droghe allucinogene di cui si cominciò a fare uso e abuso proprio in quegli anni è lampante.
Ecco dunque che il progetto di Jodorowsky si inseriva perfettamente nello Zeitgeist dell’epoca, sebbene quando lui tentò di realizzare Dune si erano ormai già compresi i rischi di quelle droghe. Infatti è lo stesso Jodorowsky ad affermare nella lunga intervista del documentario di Pavich, che tramite il film Dune, avrebbe voluto provocare lo stesso effetto delle droghe allucinogene, senza però assumerne alcuna.
La visione di Jodorowsky non si limitò a seguire pedissequamente il romanzo di Herbert ma invece, come racconta lui stesso nel documentario, egli ha modificato alcuni elementi del romanzo in modo significativo, dando al film un’impronta ancora più spirituale di quanto non fosse. Senza entrare in dettagli per non rovinare la sorpresa, possiamo dire certamente che questo è uno dei punti di forza di Jodorowsky’s Dune, ovvero il modo in cui ci fa entrare nel processo creativo di un artista che interpreta e reinventa in modo originale un materiale già esistente. In questo il documentario di Pavich è davvero esaltante.
3. L’esilarante reclutamento dei guerrieri spirituali
Dopo i riconoscimenti per gli immaginifici e disturbanti El Topo (1970) e La montagna sacra (1973) Jodorowsky si ritrovò nell’invidiabile posizione di vedersi porre dal produttore Michel Seydoux (prozio dell’attrice Léa) la fatidica domanda: “Adesso cosa vuoi fare?”. Di primo acchito, senza neanche averlo letto, Jodorowsky rispose Dune, solo perché gliene aveva parlato molto bene un suo amico. In seguito si rese conto di come il romanzo culto di Herbert si confacesse perfettamente al suo modo di guardare al mondo.
Nella vicenda di Paul Atreides e dei Fremen, Jodorowsky ci vide l’occasione per mettere in scena una grande e visionaria metafora di una presa di coscienza da parte dell’intera umanità nei confronti di se stessa e del mondo che abita. Tale era anche l’ambizioso scopo che si proponeva con la realizzazione di quello che per lui doveva essere il film più importante della storia dell’umanità. Fu per questo che all’autore cileno non serviva un semplice cast tecnico e artistico ma dei veri e propri guerrieri spirituali da motivare, che credessero nell’importanza del progetto.
Infatti le parti più divertenti, nonché avvincenti, del documentario di Pavich sono proprio gli incredibili aneddoti, raccontati sia da Jodorowsky che dagli altri protagonisti della vicenda, riguardo il reclutamento di tali guerrieri. Un po’ come Yul Brinner ne I Magnifici 7, Jodorowsky si mise a cercare appunto i guerrieri che potessero essere adatti alla sua causa, senza avere alcun limite in quanto ad ambizione.
Così si ritrovò a interpellare personaggi bigger than life come Salvador Dalì, Orson Welles, Mick Jagger, offrendo a ognuno di loro parti significative come l’imperatore galattico Padiscià Shaddam IV (Dalì), il perfido barone Harkonnen (Welles) e il suo infido nipote Feyd-Rautha (Jagger). Le trattative con Dalì e Welles sono le più parossistiche e divertenti perché Jodorowsky dovette in qualche modo ammaliare e conquistare gli smisurati ego di questi artisti per averli nella sua squadra. Non scendiamo ovviamente in dettagli per lasciare il piacere di scoprirli durante la visione. Infine l’incontro con i Pink Floyd, per la colonna sonora, mentre mangiano negli studi di registrazione, rimane nella storia.
4. Talenti che sarebbero diventati famosi
Il reclutamento di Dan O’Bannon per gli effetti speciali assume tratti addirittura inquietanti quando lo stesso O’Bannon ricorda l’incontro mesmerico avuto con Jodorowsky, durante il quale sembra che il regista lo condizionò con alcuni trucchi psichici per convincerlo a collaborare al film! O’Bannon, notato da Jodorowsky nel film di esordio di John Carpenter Dark Star (1974) nel quale era sceneggiatore, montatore, attore ed effettista, che in seguito sarebbe divenuto famoso soprattutto come autore del soggetto e della sceneggiatura di Alien (1979), è solo uno tra i grandi talenti contattati dall’autore cileno.
Ci fu Jean Giraud, in arte Moebius, uno dei più importanti disegnatori e autori di fumetti mondiali (suoi Blueberry e Arzach) che si prestò a disegnare l’intero storyboard del film sotto la guida ispirata di Jodorowsky che gli suggeriva inquadrature, punti di vista, movimenti di macchina, insomma tutto ciò che occorre, dal punto di vista visivo, per visualizzare un film in fase di pre-produzione.
Chris Foss, illustratore inglese famoso per le copertine dei libri di fantascienza, fu ingaggiato per disegnare astronavi e luoghi, come per esempio il palazzo dell’imperatore, oppure l’astronave dei contrabbandieri di spezia. Queste ultime, nella visione di Jodorowsky, dovevano sembrare vive, dei veri e propri organismi. Attualmente è considerato tra i maggiori futuristi visuali del mondo.
Infine fu reclutato Hans Rudi Giger, futuro geniale ideatore del design di Alien, che qui fu chiamato a disegnare il mondo gotico e orrorifico degli Harkonnen. Suo il palazzo del barone che, riproducendone le paffute fattezze, ne sottolinea il carattere assolutamente egoico, di chi vive chiuso dentro se stesso.
Le creazioni visive di questi grandi artisti sono rese nel documentario di Pavich in modo davvero efficace e suggestivo, con animazioni (alcune in 3D) che danno vita a quei bozzetti e a quei disegni fantastici, donandoci per alcuni minuti l’illusione che il film sognato da Jodorowsky si stia davvero proiettando davanti ai nostri occhi.
5. L’eredità del Dune di Jodorowsky
Questa incredibile squadra di talenti visivi e narrativi messa insieme da Jodorowsky fu in seguito inglobata per grosse produzioni fantascientifiche, prima fra tutte Alien (1979), da quella stessa Hollywood che rifiutò il Dune del regista cileno. Ognuno di loro lavorerà poi in tante altre produzioni importanti. L’importanza di Dune non si esaurisce qua ovviamente.
Lo stesso Lucas non fa mistero riguardo l’enorme influenza che il romanzo di Herbert ebbe sulla sua celebre saga fantasy/sci-fi. Come sottolinea giustamente il critico Devin Faraci intervistato nel documentario di Pavich, la storia del cinema sarebbe stata molto diversa se Jodorowsky fosse riuscito a realizzare il suo Dune. Probabilmente Star wars sarebbe stato ridimensionato nella sua importanza.
La parte più commovente del documentario è proprio quella in cui si esplicitano visivamente, quasi senza l’aiuto di parole, i numerosi riferimenti visivi al Dune di Jodorowsky, presenti in tantissimi film di fantascienza (e non solo) prodotti in seguito. Dai più evidenti in Star Wars (1977), Alien (1979), Flash Gordon (1980) e Blade Runner (1982), ai più insospettabili come quelli contenuti nella scena finale de I predatori dell’arca perduta (1981), Terminator (1984), oppure in Masters – I dominatori dell’universo (1987), Contact (1997) di Zemeckis, infine perfino nel più recente Prometheus (2012). Agli spettatori lasciamo il gusto di scoprire in che modo questi riferimenti agiscano. È interessante notare come soprattutto le produzioni fantascientifiche di Ridley Scott abbiano beneficiato dei talenti e delle intuizioni del progetto jodorowskiano. Inoltre, tra i film maggiormente influenzati dalla visione di Jodorowsky, ma non citati nel documentario, ci sentiamo di includere sicuramente anche il gustoso Il quinto elemento (1997) di Luc Besson. Ce ne sarebbero ovviamente tanti altri che sarebbe lungo enumerare.
Vi chiederete come sia possibile che un progetto mai realizzato abbia influenzato così tante produzioni filmiche. Non dimentichiamo che Jodorowsky fornì svariate copie del mitico librone con tutti gli storyboard e i disegni preparatori alle maggiori case di produzione americane, sperando in un finanziamento che mai arrivò. Ecco dunque come il Dune jodorowskiano potrebbe essere diventato il fantasma che ha aleggiato per tanti anni nell’immaginario fantascientifico hollywoodiano.
Inoltre tutta la stagione d’oro del fumetto cyberpunk che ruotava attorno alla rivista di fumetti francese Metal Hurlant risentì direttamente dell’influenza del film mai fatto di Jodorowsky. In effetti sulle pagine di quella rivista erano proprio i fumetti ideati dallo stesso Jodorowsky a fare furore, a cominciare da L’incal, disegnato dal fidato Moebius, fino ai Metabaroni, disegnato invece da Juan Jimenez, opere di carta in cui Jodorowsky riversò molte delle intuizioni visive e narrative rimaste inutilizzate dal progetto di Dune. Proprio nel particolare clima culturale creatosi attorno a Metal Hurlant nacque quell’incredibile lungometraggio animato che fu Heavy Metal (1982), nei cui vertiginosi e inquietanti mondi sfidiamo chiunque a non intravedere echi del progetto fantasma di Jodorowsky.
Aggiungiamo infine che chi scrive ebbe la fortuna di visitare nel 1999 una mostra sul Dune di Jodorowsky, allestita all’interno di un enorme verme della sabbia ricostruito al molo Beverello di Napoli, nel quale fu possibile ammirare da vicino i disegni, i bozzetti, gli storyboard e buona parte del materiale visivo prodotto per il progetto.
Alla luce di tutto questo vi consigliamo dunque di non perdere l’occasione di vedere al cinema questo interessante e avvincente documentario, sia per connettersi idealmente all’opera di Frank Herbert, sia come visione propedeutica al kolossal di Denis Villneuve che, speriamo (e crediamo), sarà all’altezza di un compito così immane. Siamo sicuri che anche Alejandro Jodorowsky sarà in prima fila a vederlo nelle sale.