Si potrebbe affermare che il genere survival al cinema non esista autonomamente, se non come sotto-genere all’interno di altri macro-generi che comprendono per esempio l’avventura, l’horror e la fantascienza. Eppure, soprattutto negli ultimi decenni, si è sempre più consolidata l’abitudine di usare il termine survival per descrivere film in cui uno o più personaggi si trovano in situazioni ambientali estreme, spesso in luoghi dove la natura selvaggia e incontaminata domina ancora incontrastata. La lotta per la sopravvivenza costituisce il motore principale di queste vicende.
Il survival è in realtà un’intersecazione di diverse modalità narrative che possono essere ascritte a più generi diversi, anche se affini tra loro. Non è raro infatti che il survival si tinga di horror, soprattutto quando entrano in gioco minacce da parte di esseri di varia natura, che siano umani o meno poco importa, i quali sono parte integrante dell’ambiente in cui si calano i protagonisti, che sia per scelta o per costrizione. In questi casi non mancano efferatezze di vario genere che potrebbero disturbare gli stomaci più delicati.
In altri casi, invece, ciò che conta in un survival è l’immersione nella cosiddetta “wilderness”, ovvero la Natura selvaggia in cui i protagonisti si recano alla ricerca di una vita più pura, di una condizione edenica perduta, per ritrovare la parte più autentica di sé. Altre volte ancora, il survival si sposa con la fantascienza, sfornando risultati davvero interessanti, in cui la lotta per la sopravvivenza si colora con il gusto per l’avventura spaziale.
Per costruire la nostra classifica dei migliori film di sopravvivenza abbiamo preferito seguire un criterio cronologico, per poter meglio cogliere delle costanti che si ripetono in alcuni film vicini nel tempo e seguire così alcuni fili rossi che si dipanano tra una pellicola e l’altra.
1. Un tranquillo weekend di paura (1972)
C’è chi, dopo aver visto questo film, non può più ascoltare il dolce e innocente suono di un banjo (non il pilota di Daitarn 3, bensì lo strumento musicale!) senza provare un brivido su per la schiena. L’immersione nella Wilderness degli sprovveduti “animali di città” Ed (Jon Voight), Lewis (Burt Reynolds), Bobby (Ned Beatty) e Drew (Ronny Cox) a bordo di una canoa, si rivelerà una terribile e angosciante avventura (che comprende anche un traumatico stupro) dalla quale non tutti torneranno vivi. Il confronto con l’ambiente apparentemente innocente delle zone rurali degli Stati Uniti (in questo caso i monti Appalachi) si rivelerà drammatico e, per lo più, in favore dei cosiddetti Hillbillies, ovvero, semplificando, i cosiddetti bifolchi della provincia americana. Questi ultimi daranno del filo da torcere ai protagonisti che, per supposta superiorità intellettuale, crederanno di passare indenni attraverso un ambiente e una cultura ai quali sono totalmente estranei. Il loro confronto con tali realtà non passa attraverso un processo di comprensione e integrazione dell’Altro, ma tutto viene filtrato tramite uno sguardo compiaciuto e superficiale. Di conseguenza saranno necessari un sacrificio e una prova iniziatica per poter uscire dal ventre oscuro di Madre Natura, al tempo stesso affascinante e terrificante.
In questo capolavoro di John Boorman non mancano echi lovecraftiani per due motivi. In prima battuta la presenza degli Hillbillies abbrutiti e arretrati che, nei racconti di H.P. Lovecraft, spesso sono frutto di immonde unioni tra consanguinei e che, nelle regioni più interne e selvagge del New England, si danno a rituali blasfemi e inenarrabili. Non è un caso che varie persone con cui si trovano ad avere a che fare i quattro protagonisti siano portatrici di di evidenti disabilità, probabilmente dovute proprio a quegli accoppiamenti cui faceva riferimento Lovecraft. In seconda battuta l’imminente inondazione, causa costruzione di una diga, della zona del fiume Cahulawassee in cui è ambientato il film, rimanda nettamente al racconto Il colore venuto dallo spazio in cui una valle nei pressi della immaginaria Arkham, viene invasa dalle acque, sempre per creare bacino artificiale. Qui l’acqua andrà a sommergere il teatro di un terribile misfatto di origini aliene e servirà soprattutto a proteggere il resto dell’umanità da ciò che ancora si cela lì sotto. Nel film di Boorman invece l’inondazione artificiale servirà a coprire un delitto e dunque a preservare intatte le vite ovattate dei protagonisti, ma non le loro coscienze.
SPOILER: È paradossale e beffardo infine il fatto che l’unico dei quattro protagonisti, Drew, che è riuscito a entrare un minimo in risonanza emotiva con un abitante del luogo (un ragazzino autistico che suona il banjo in una delle scene più iconiche del film), sia anche l’unico a soccombere. Quasi a sottolineare la totale irriducibilità e incomunicabilità dei due mondi, quello cittadino e quello rurale, a confronto.
Voto: 9
2. Corvo rosso non avrai il mio scalpo (1972)
Il 1972 è stato un anno fortunato per il genere survival: oltre al capolavoro di Boorman abbiamo infatti anche Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, film che segna l’inizio del proficuo sodalizio tra Sidney Pollack e Robert Redford. Il soldato Jeremiah Johnson, reduce dalla guerra messicano-statunitense, decide di andare a vivere sulle Montagne Rocciose, cacciando animali e vivendo di quel che la natura gli offre. Vari incontri, positivi e negativi, segneranno il suo percorso, sia fisico che interiore: guide più esperte a fargli da mentori, tribù indiane pacifiche oppure ostili, colleghi cacciatori, una nuova famiglia a cui badare. Tutto viene raccontato in maniera classica, con un ritmo ciclico, che riprende quello delle stagioni. La natura selvaggia, o Wilderness, in cui si immerge Johnson non è né benigna né maligna ma bensì uno stato interiore, un luogo dell’anima in cui ritrovare sé stessi e la propria essenza. Una condizione in cui recuperare quell’autenticità perduta dalla civiltà occidentale ormai corrotta, un ambiente che può offrire ostacoli o accoglienza, a seconda del modo in cui ci si pone. Comprendendo i meccanismi che regolano la Natura e rispettandoli ci si può confrontare e integrare proficuamente con essa.
Stessa cosa per i nativi americani: con alcune tribù il nostro Jeremiah riesce a entrare in buoni rapporti, con i Corvi invece non sarà possibile nel momento in cui, coinvolto suo malgrado in una spedizione dell’esercito, sarà costretto ad attraversare un cimitero sacro alla tribù. Le conseguenze per la famiglia di Johnson saranno tragiche e partirà così una faida vendicativa nei confronti dei Corvi. Johnson si dimostra un abile avversario, tanto da guadagnarsi il rispetto della tribù ostile, per la quale diventerà una vera e propria leggenda. Il tema della vendetta viene dunque stemperato in un finale circolare che torna nei luoghi dove Jeremiah aveva iniziato, ma con una consapevolezza diversa. Il nemico non è più un nemico e il rapporto con la Natura è diventato il simbolo di una ricerca e una conoscenza interiore.
Voto: 9
3. I guerrieri della palude silenziosa (1981)
I soldati della guardia civile nazionale della Louisiana non sono totalmente avulsi alla vita nella natura selvaggia come i protagonisti di Deliverance, ma neanche delle cime in fatto di tattiche di guerriglia. Mal gliene incoglie quando, durante un’esercitazione nelle paludi delle Everglades, uccideranno per sbaglio un cajun, abitante francofono di quelle zone, di origine canadese, deportato lì in seguito all’espulsione avvenuta nel XVIII secolo. Non lasciatevi ingannare dal dolce accento della lingua di Rostand, Dumas e Hugo: i cajun sono peggio dei Viet Cong! Ne pagheranno le conseguenze il soldato Spencer (Keith Carradine), il caporale Hardin (Powers Boothe), il caporale Reece (Fred Ward) e il resto del plotone votato inconsapevolmente alla morte. A differenza della solidarietà tra gli amici protagonisti della pellicola di Boorman, qui invece assistiamo a fenomeni di paranoia e ossessione maniacale tra alcuni soldati che renderanno ancora più facile la vendetta da parte dei cajun.
La messa in scena sobria, efficace e precisa di Walter Hill diventa magistrale nella scena in cui i due sopravvissuti trovano (forse) rifugio in un villaggio dove si assiste alla mattanza di un maiale. L’atmosfera di ferale minaccia che permea l’intera sequenza è palpabile e insinuante, grazie ad un ritmo serrato di montaggio, una fotografia costantemente livida e facce perfette calate nei ruoli secondari. Un pezzo di cinema che dà dei numeri a molti film attuali.
Il titolo originale si riferisce ironicamente alla calorosa accoglienza, tipica delle popolazioni del sud.
Voto: 8
4. Rambo (1982)
Che gli uomini della guardia nazionale americana non siano proprio degli esperti in guerriglia lo avevamo già capito dal film precedente. Se ne volevamo un’ulteriore conferma ecco che giunge il primo capitolo delle gesta di Rambo in nostro soccorso. Come molti sapranno First Blood, questo il titolo originale, è ben diverso dai successivi sequel, assurti a simbolo di un’America reaganiana che non esiste più (il quarto e il quinto, realizzati dopo il Duemila, sono altra cosa ancora ma non ne tratteremo qui). La vicenda paradigmatica del reduce dal Vietnam John Rambo (Sylvester Stallone nel suo secondo ruolo più famoso), disadattato e braccato dal violento sceriffo Teasle (Brian Dennehy a sua volta nel suo ruolo più iconico) si trasforma in un formidabile survival movie dove la preda si trasforma in cacciatore. Gli uomini dello sceriffo verranno dunque braccati e quasi uccisi da quella macchina da guerra che è il soldato John Rambo. Quelli della Guardia Nazionale si dimostreranno non meno inetti e pavidi. L’elemento survival in questo film riguarda sia il protagonista, solo in una zona di montagna, sia gli uomini di legge che si ritroveranno inaspettatamente braccati e gravemente feriti.
Ciò che resta del primo Rambo è il malinconico senso di smarrimento del veterano di guerra che non è riuscito a reinserirsi nella vita civile e che viene egregiamente veicolato dallo stesso Stallone nella memorabile scena finale in cui, dopo un fenomenale e disperato monologo, si abbandona alle braccia paterne del colonnello Trautman.
Detto questo non possiamo però esimerci dal ricordare la battuta più iconica e, ammettiamolo, esaltante di tutto il film, pronunciata da Rambo dopo aver messo fuori combattimento tutti gli uomini dello sceriffo, rivolgendosi infine a quest’ultimo, caduto anche lui in trappola: “In città sei tu la legge, qui sono io. Lascia perdere. Lasciami stare o scateno una guerra che non te la sogni neppure.”
Voto: 7
5. Cast Away (2000)
Robert Zemeckis allestisce per il suo attore-feticcio Tom Hanks un tour de force interpretativo in cui, per calarsi nei panni del naufrago Chuck Noland, dimagrisce di moltissimi chili per simulare la condizione di denutrizione dovuta alla permanenza prolungata su un’isola deserta, a seguito di un ammaraggio dell’areo privato che lo trasportava. Come dirigente operativo della FedEX (marchio leader mondiale nel campo delle consegne a domicilio prima dell’avvento della rete e di Amazon), per Chuck il Tempo, il tempo delle consegne, è un fattore fondamentale. Sull’isola in cui è costretto ad imparare a sopravvivere con le sue sole forze, di tempo ne avrà tanto a disposizione per riflettere sulla sua esistenza.
Molti i momenti da ricordare. Magistrale la scena dell’incidente aereo in cui Zemeckis ci precipita (è proprio il caso di dirlo) all’improvviso nel cuore dell’azione a partire da un gesto banale all’interno di una toilette. Esilarante la scena della “scoperta del fuoco”. Iconico e memorabile il “personaggio” di Wilson, pallone su cui Chuck ha dipinto delle fattezze umane per simulare una sorta di compagnia umana. Straziante la sua “dipartita”.
Il finale, per nulla scontato o consolatorio, trova la sua chiusa ideale (e geniale) nel quadrivio che campeggia nell’ultima inquadratura, offrendo allo spettatore ben più di uno spunto a cui pensare riguardo il senso della vita.
Voto: 7 e 1/2
6. The Descent (2005)
Una discesa nel ventre della terra per le sei donne protagoniste di quest’ottimo survival-horror diretto da Neil Marshall. Tre amiche, a cui se ne aggiungeranno altre tre, esperte in arrampicata, si ritroveranno, per colpa dell’avventatezza di una di loro, perdute all’interno di un complesso sotterraneo di gallerie inesplorato, non riportato dai manuali e non segnalato ai centri di soccorso da nessuna di loro.
Fin troppo scoperta la metafora di discesa nell’utero da parte delle sei donne, una delle quali ha appena perso marito e figlio. Ciò che conta però è che il cineasta inglese sia riuscito a costruire un survival horror tesissimo, di grande atmosfera, per nulla conciliante e spietato perfino nel finale. A rendere il tutto davvero terrorizzante, si aggiunga una tribù di esseri umanoidi semiciechi, ma velocissimi e dall’udito e dall’olfatto ineccepibili, nonché albini e cannibali, evidentemente adattatisi alla vita sottoterra.
Un atroce segreto si cela inoltre tra due amiche del gruppo (intuibile fin dall’inizio). Questo elemento narrativo fungerà da detonatore di una delle scene più efferate e indimenticabili del film.
Voto: 6 e 1/2
7. Apocalypto (2006)
Il film di Mel Gibson, ambientato al crepuscolo della civiltà Maya (XVI Secolo) e caratterizzato da dialoghi in lingua maya yucateca (o perlomeno un’approssimazione possibile), al di là della ricostruzione storica più o meno accurata, è in realtà un buon survival. Il mondo dei Maya, con i suoi sacrifici cruenti, i colori sgargianti dipinti sui volti, le mistiche piramidi a gradoni, costituisce qualcosa di totalmente alieno per lo spettatore che, per l’efferatezza dei suoi rituali e degli scontri fisici cui assistiamo, acquista connotazioni horror.
L’abilità di Gibson consiste infatti nell’immergere lo spettatore in una forsennata corsa per la vita all’interno di un mondo ostile, cruento e spietato in cui il giovane Zampa di Giaguaro dovrà compiere gesta ai limiti dell’umano e, diciamolo, della plausibilità, per sfuggire alla ferocia degli abitanti della città Maya che vogliono sacrificarlo agli dei, nonché per salvare la moglie incinta e il figlio piccolo. Questi ultimi erano stati celati in un pozzo dallo stesso Zampa di Giaguaro, proprio per sfuggire ai razziatori della città, ma è impossibile uscirne senza un aiuto esterno. Non c’è davvero respiro in questo film in cui l’azione, i gesti e la messa in scena contano ben più degli stringati dialoghi in lingua Maya.
Voto: 6
8. The Grey (2011)
Liam Neeson contro i lupi: si potrebbe riassumere così questo survival molto basilare ma efficace, in cui un gruppo di lavoratori di una compagnia petrolifera attiva in Alaska precipita con un aereo tra le montagne innevate. La sopravvivenza non sarà minacciata solo dalle condizioni di vita estreme dell’ambiente ma anche da un branco di lupi famelici che prende di mira il gruppo di disgraziati superstiti dell’incidente.
Buona percentuale della riuscita del film, che comunque non perde un colpo in quanto a tensione e ritmo, è basata sul carisma di Neeson, già all’epoca divenuto una icona di un certo cinema action (Io vi troverò e derivati) che qui trova una nuova declinazione nella figura di un esperto cacciatore di lupi, John Ottway, però dal background tragico (la moglie è malata terminale e lui ha perso la voglia di vivere). Ma soprattutto consente al divo di inanellare una nuova figura nella sua galleria di personaggi inesorabili e, diciamolo, anche improbabili, ma proprio per questo ancor più gustosi.
Il “branco” di umani, guidato dall’esperienza di Ottway, cercherà di usare le stesse “tecniche” adottate dai lupi e cioè eliminare gli avversari uno a uno, però con delle armi di fortuna al posto di zanne e artigli. Il gioco a eliminazione, tipico dei survival-horror, procede qui inesorabile, con la stessa spietatezza nei confronti dei propri personaggi, dimostrata per esempio dagli sceneggiatori de Il trono di spade. Il “branco” degli uomini si assottiglia sempre più: per l’ipotermia, affrontando crepacci e, ovviamente decimato dai lupi.
La cosa interessante è che, per affrontare la minaccia dei grigi (questa la razza di lupo che dà il titolo al film), gli uomini dovranno avvicinarsi sempre più alla ferinità dell’animale, fino al memorabile finale in cui John Ottway affronterà i lupi con dei frammenti di bottiglia legati alle nocche delle mani, proprio come fossero artigli.
Voto: 6 e 1/2
9. Gravity (2013)
Si trasforma in un’odissea la missione della dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), ingegnere biomedico, imbarcatasi per la prima volta su uno shuttle. Un’ondata di detriti spaziali in orbita attorno alla Terra distrugge lo shuttle e uccide l’equipaggio, tranne la nostra Ryan e il collega più esperto Matt Kowalsky (Geroge Clooney). Rimasti da soli nello spazio devono raggiungere la stazione internazionale spaziale per sperare di sopravvivere. Numerose insidie sono però in agguato.
Il film, vincitore di ben 7 Oscar tra cui miglior regia, fotografia, montaggio ed effetti speciali, è un vero e proprio tour de force registico in cui Cuarón, con l’aiuto di effetti digitali all’avanguardia e del virtuoso direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, ha potuto realizzare degli strepitosi e vertiginosi piani-sequenza con i quali seguire le peripezie di Ryan, sia nello spazio che all’interno di claustrofobiche carlinghe, abitacoli e corridoi. Lo sguardo dello spettatore, soprattutto se il film viene fruito in sala, si perde letteralmente alla ricerca di un appiglio per ricostruire il sopra e il sotto della realtà, perso come l’astronauta novellina Ryan in un mondo in cui le regole fisiche non sono quelle del nostro pianeta.
Efficace lo stratagemma narrativo dei detriti orbitali che ripasseranno a velocità pazzesca dopo un’ora e mezza, scandendo dunque il film come un unico conto alla rovescia in tempo reale e rendendo così l’opera un perfetto meccanismo al cardiopalma.
La storia si trasforma infine per la nostra Ryan in un percorso di conoscenza di sé e dei propri limiti, nonché di rinascita, rappresentata simbolicamente da un momento visivo e narrativo molto pregnante in cui la vediamo raggomitolarsi in posizione fetale, all’interno dello stretto abitacolo di una cabina spaziale.
Voto: 7 e 1/2
10. Revenant (2015)
Il film sulla sopravvivenza estrema di Iñárritu, vincitore di 3 Oscar per la miglior regia, fotografia e interpretazione principale, viene ricordato soprattutto per la terribile lotta tra Leonardo Di Caprio e l’orso (una femmina grizzly), per la statuetta tanto agognata finalmente vinta dall’attore e per la lavorazione lunghissima ed estrema. Il cineasta volle infatti girare il film in ordine cronologico, in location reali, spesso difficilmente accessibili, sempre in attesa della migliore luce naturale. La storia vera della guida (trapper) Hugh Glass nel North Dakota del 1823 rientra da un lato in quel filone survival, di cui Corvo rosso rappresenta forse l’esempio più alto di immersione, perdita di sé e conseguente nuova consapevolezza all’interno della cosiddetta Wilderness. Dall’altro nel revenge movie, in quanto l’attraversamento della natura selvaggia viene motivato non solo da questioni di sopravvivenza ma anche da motivi di vendetta nei confronti del vile Fitzgerald (Tom Hardy), assassino del figlio di Glass.
Quella dimensione esistenziale che ben si respirava in Corvo rosso qui viene dunque stemperata e diluita dal tema della vendetta che infine prevale sulla storia. Il percorso di Glass, più che una riscoperta di sé, diventa un inanellamento di episodi e ostacoli, naturali e non, che si frappongono tra lui e il raggiungimento della vendetta e dunque di una sorta di pace interiore.
Ciò che imprime Revenant nella memoria dello spettatore è l’immersione sensoriale totale che Iñárritu riesce a costruire attorno alla vicenda: anche qui come in Gravity risulta fondamentale la presenza di Emmanuel Lubezki alla direzione della fotografia. Glass/Di Caprio viene costantemente tallonato, a distanza ravvicinata, da macchine da presa munite per lo più di soli obiettivi grandangolari spinti (a volte fisheye), che permettono una notevole profondità di campo, dando così modo allo spettatore di esplorare l’inquadratura alla ricerca di minacce provenienti dallo sfondo. Non solo: l’estrema mobilità della macchina da presa, fissata su supporti steady molto agili e leggeri, ha permesso a sua volta un’ulteriore esplorazione dell’ambiente attorno a Glass, da parte dello stesso occhio del regista-demiurgo-enunciatore della storia, moltiplicandone le possibilità narrative.
Voto: 7
11. Il tesoro della Sierra Madre (1948) – BONUS
In questo capolavoro di John Huston (Oscar per la miglior regia, la miglior sceneggiatura non originale e il miglior attore non protagonista), che possiamo considerare un antesignano dei moderni survival movie, a farla da padrone è l’avidità, che si cela nel cuore di Fred C. Dobbs (interpretato da un irsuto, odiosissimo e dunque bravissimo Humprey Bogart), cercatore d’oro nelle montagne del Messico del 1925, accompagnato dall’amico Bob (Tim Holt) e dal vecchio esperto Howard (Walter Huston, padre del regista). Se le aspre e impervie condizioni di vita della Sierra Madre costituiranno il primo ostacolo per questi emuli di zio Paperone (ricordiamo che da giovane il personaggio disneyano cercava l’oro nel Klondike), e le rapine dei banditi messicani saranno il secondo, la vera minaccia si rivelerà invece la paranoia ossessiva di Fred. Nel momento in cui si scoprirà una prolifica vena d’oro, il nostro comincerà a guardare i suoi compagni con sospetto prima e ostilità poi. È l’oro che prende possesso della mente delle persone, così come viene giustamente ricordato dal saggio Howard che ammonisce i due compagni più giovani all’inizio della loro avventura.
Indimenticabile e iconica la bizzarra danza inscenata da Walter Huston nel momento di giubilo in cui trovano finalmente l’oro, citata in modo esilarante da Billy Crystal in Scappo dalla città 2 (1994). Inoltre il finale rimane tra i più beffardi, cattivi e paradossalmente esilaranti del genere.
Voto: 9