Se gli anni Ottanta furono, per molti aspetti, il decennio delle contaminazioni e del postmoderno, forse non dovrebbe stupirci che il maggior successo discografico del 1981 sia stato un pezzo quale Bette Davis Eyes, cavallo di battaglia della cantante californiana Kim Carnes. Chiunque all’epoca abbia mai acceso una radio ricorderà sicuramente questo tormentone che, nell’autunno del 1981, dominò le classifiche anche in Italia; ma pure riascoltandola oggi, a quarant’anni di distanza, Bette Davis Eyes rivela uno charme irresistibile, in grado di far presa tanto sui Millennials stregati dalla cultura pop degli anni Ottanta, quanto sull’ascoltatore occasionale, pronto a farsi irretire dalla voce roca e sensuale di Kim Carnes e dal suo ritratto di una femme fatale con lo sguardo di Bette Davis. Di seguito, pertanto, proveremo a dimostrarvi perché Bette Davis Eyes è la canzone più cool degli anni Ottanta, o perlomeno è lì nei pressi della vetta.
Innanzitutto partiamo da lei: Kim Carnes, un nome che probabilmente oggi non dirà molto a chi non sia un cultore degli Eighties, ma la cui carriera comunque non si limita a quest’unico successo (per quanto mastodontico). Kim Carnes, in effetti, non si conforma appieno ai paradigmi delle superstar musicali del periodo: losangelina, classe 1945, negli anni Settanta la biondissima Kim pubblica un pugno di dischi dalle venature conutry, che faticano a trovare posto nelle classifiche. In compenso riscuote più attenzione come autrice, tanto che un paio di suoi brani vengono incisi addirittura da Barbra Streisand, e nel 1980 firma per Kenny Rogers Don’t Fall in Love with a Dreamer: questa romanticissima ballata, cantata in duetto da lei e Rogers, sarà la prima, grande hit della Carnes sul mercato americano, seguita a stretto giro di posta da More Love, splendida cover di un pezzo di Smokey Robinson.
È il 1981, Kim Carnes ha compiuto trentacinque anni e finalmente, forte di un paio di canzoni entrate in Top 10, decide di ritentare l’assalto alle classifiche con un’altra cover. La scelta, stavolta, ricade su Bette Davis Eyes, brano misconosciuto scritto nel 1974 da Jackie DeShannon e Donna Weiss, che nella versione della DeShannon univa un testo accattivante, ispirato ai look delle grandi dive della Hollywood classica, a un boogie-woogie un po’ vecchio stile. Ma come trasformare questo simpatico divertissement fuori tempo massimo in un fenomeno planetario? Rivisitandolo secondo quel gusto new wave imperante all’epoca, fino a trasformarlo in uno dei più perfetti esempi di synth-rock dei primi anni Ottanta, pure per merito di un riff che ha fatto la storia. Insomma, un arrangiamento che ci si potrebbe aspettare in un disco dei Blondie, al quale va sommata inoltre l’indovinatissima performance della Carnes.
La nostra Kim non può vantare una grande estensione vocale, ma in compenso quel suo timbro basso e graffiante, quasi una controparte femminile di Rod Stewart, farà la fortuna di Bette Davis Eyes. I versi, dicevamo, ci rappresentano una donna con la chioma dorata di Jean Harlow, le labbra che promettono “dolci sorprese”, il distacco malinconico di Greta Garbo («She’s got Greta Garbo’s stand-off sighs», altro verso geniale) e, manco a dirlo, gli occhi di Bette Davis, la diva il cui sguardo di fuoco aveva infiammato generazioni di spettatori. Ma sul modello delle femme fatale del cinema noir, la donna della canzone è «pura come la neve di New York» (altro verso di affilata misoginia), oltre che feroce, falsa («She’s ferocious and she knows just what it takes to make a pro blush») e fascinosamente misteriosa («All the boys think she’s a spy»).
Bette Davis Eyes è dunque l’impietoso ammonimento di una donna a proposito di una presunta rivale, odiata, temuta, ma in fondo anche invidiata; quasi una variante in musica di Eva contro Eva, tanto per restare in tema con Bette Davis. E Kim Carnes pronuncia tale ammonimento con espressività misurata e qualche pennellata di ironia: la sua enfasi teatrale su ferocious, il suono sibilante con cui scivola sulla S di eyes al termine di ogni ritornello. Il distacco sarcastico dell’interprete, l’immaginario dell’età d’oro di Hollywood adoperato come archetipo, un sapiente uso dei sintetizzatori: Bette Davis Eyes è un cocktail infallibile di ciò che, all’alba degli Eighties, era considerato più cool e in linea con lo spirito del tempo, e difatti il pubblico darà ragione a Kim Carnes e al suo team.
A un paio di mesi dalla sua uscita, il 16 maggio il brano conquista il primo posto negli Stati Uniti, mantenendo la vetta per ben nove settimane e ottenendo da Billboard il titolo di singolo più venduto del 1981. Bette Davis Eyes arriva al numero uno anche in una ventina di altri paesi, tra cui Francia (con oltre un milione di copie), Italia, Germania, Spagna e Australia, e contemporaneamente traina in cima alla classifica americana il nuovo album di Kim Carnes, Mistaken Identity. A suggellarne l’accoglienza trionfale saranno poi la vittoria dei Grammy Award per la miglior registrazione e la miglior canzone dell’anno e il messaggio deliziato della star eponima, Bette Davis, che ringrazierà la Carnes per averle fatto guadagnare – potere della musica pop! – l’ammirazione del suo nipotino. Certo, un’attrice di tale statura non ha bisogno di una hit a suo nome per essere ricordata… ma d’altra parte, in quanti possono vantare di aver ispirato uno dei tormentoni più belli di sempre?