Per chi, dopo aver visto C’era una volta a Hollywood, fosse rimasto con la curiosità di sapere se Cliff Booth (Brad Pitt) avesse realmente ucciso la moglie oppure di sapere tutta la verità riguardo la mancata partecipazione di Rick Dalton a La grande fuga, il romanzo omonimo pubblicato da Quentin Tarantino, in contemporanea mondiale il 1 Luglio, ha fatto luce su questi e altri possibili interrogativi rimasti senza risposta. Ovviamente non si tratta solo di questo: con la scrittura del romanzo, il cineasta di Knoxville ha voluto riprendere dei personaggi ai quali è molto affezionato e approfondirne il background, svelarne lati caratteriali inediti tramite episodi delle loro vite che non era possibile raccontare nell’arco del film. La vicenda di C’era una volta a Hollywood si arricchisce dunque di retroscena interessanti e rivelatori ma anche di alcune scene già viste nel film, espanse e arricchite con ulteriori dialoghi e code narrative che illuminano ulteriormente la tridimensionalità dei personaggi e permettono a Tarantino di dire la sua sul cinema e su tanti aspetti della produzione, della regia, della recitazione, del rapporto attore-regista. Ecco perché abbiamo deciso di tornare nell’America del 1969 con un’analisi di C’era una volta a Hollywood dal film al romanzo.
Cortocircuito filmico-letterario
Ciò che subito si impone alla coscienza di chi legge questa fatica letteraria tarantiniana, dopo aver visto il film due anni fa, è uno strano cortocircuito che si verifica in genere quando si legge un romanzo dopo aver già visto il film da cui è tratto. La fruizione del libro viene inevitabilmente condizionata dalla visione del film e dagli interpreti che ne hanno incarnato i personaggi, più o meno iconici ed efficaci. In questo caso però il libro arriva dopo e non si tratta di una cosiddetta novelization (come è stato fatto per esempio all’epoca con Star Wars e Alien) e cioè di una riduzione letteraria, successiva o contemporanea all’uscita di un film di grande richiamo e che riprende bene o male gli eventi raccontati nella pellicola.
In questo caso abbiamo un Autore, con la A maiuscola, che riprende in mano i suoi personaggi e il mondo in cui essi interagivano per approfondirne alcuni aspetti e tralasciarne volutamente altri che sono stati già trattati nel film. Parliamo di un regista e sceneggiatore che, della conversazione logorroica e apparentemente futile, ha fatto la sua cifra stilistica. Sì, perché se c’è una caratteristica che contraddistingue il cinema di Tarantino in generale è il proliferare di una chiacchiera ossessiva e fine a sé stessa, ovvero di dialoghi che, apparentemente, non servono affatto a far progredire l’azione. Roba da mandare in tilt qualsiasi manuale di sceneggiatura. Questi dialoghi dilatano spesso il ritmo delle scene in modo esagerato e non sembrano trovare una giustificazione narrativa lampante. Eppure funzionano. Forse proprio perché riprendono, con gusto del nonsense e del paradosso, il cosiddetto “cazzeggio” che avviene nella vita reale per riempire i momenti di vuoto.
Non si tratta però solo di questo: nelle sceneggiature di Tarantino è sempre presente il gusto dell’aneddoto, del racconto o, se vogliamo, della parabola con una sua morale, tutta interna ai codici etici dei suoi personaggi. Ciò che più piace al cineasta di Knoxville è raccontare, affabulare e così fanno i suoi personaggi nelle sue opere. Detto questo, eravamo comprensibilmente curiosi su come Tarantino avrebbe trasposto la sua scrittura spericolata, paradossale e bulimica nella forma del romanzo.
Come sbirciare nella testa di Tarantino
Leggendo C’era una volta a Hollywood salta subito all’occhio come la scrittura romanzesca del nostro sia notevolmente influenzata dal suo stile di sceneggiatore, soprattutto nel modo in cui, a volte quasi didascalicamente, Tarantino chiarifica la situazione, il carattere e i pensieri dei personaggi durante una conversazione. Non è un male perché la sensazione è quella di sbirciare dentro la testa di Tarantino e penetrare all’interno del suo processo creativo. E’ come se ogni scena del film venisse squadernata e al tempo stesso rimpolpata da riflessioni, descrizioni e osservazioni che ci permettono di osservare la macchina creativa tarantiniana dal di dentro e capire così anche meglio il senso delle azioni dei personaggi e che cosa li ha portati a essere come sono. È un processo interessante e appassionante per chiunque apprezzi il cinema di Tarantino, ma può essere un invito ad avvicinarvisi anche per chi non lo conosce o non ne è attratto.
Un universo approfondito ed espanso
Siamo sicuri che una delle ragioni per cui i fan di Tarantino e di C’era una volta a Hollywood correranno a comprare questo libro sarà la curiosità di scoprire il passato, ed eventualmente anche il destino, dei beniamini del film. In particolare Rick Dalton, attore televisivo in crisi incarnato da Leonardo DiCaprio e la sua controfigura Cliff Booth, interpretato da Brad Pitt, premiato anche con l’Oscar. Ebbene le curiosità verranno ampiamente soddisfatte, soprattutto riguardo il passato di Booth, la cui laconicità e apparente imperturbabilità lasciavano molte domande riguardo il suo (torbido?) passato. Cliff Booth ne esce dunque fuori con una tridimensionalità che nel film mancava e possiamo apprezzarne luci e ombre con maggior cognizione di causa. Anche l’aneddoto della morte della moglie verrà definitivamente chiarito (ma non vi faremo spoiler).
Di Rick Dalton apprenderemo molto della sua carriera precedente e come sia arrivato a interpretare Jack Cahill in Bounty Law ma, soprattutto, sapremo la verità riguardo la famosa lista di star in lizza per il ruolo di Steve McQueen per La grande fuga, di cui avrebbe fatto parte anche lui. Ci sarà anche spazio per un gustosissimo confronto diretto tra Dalton e lo stesso McQueen che, siamo sicuri, lascerà i lettori divertiti e appagati. Apprenderemo anche alcuni retroscena riguardo Roman Polanski e Sharon Tate ma soprattutto del grande assente del film e cioè quel Charles Manson la cui presenza aleggia come un inquietante fantasma in tutta la pellicola. Questi capitoli approfondiscono il senso delle sue azioni perverse e ce lo fanno conoscere nelle sue debolezze. Leggendoli non nascondiamo che ci sarebbe piaciuto, idealmente, vederli almeno come scene tagliate nei contenuti extra dell’edizione home video.
Tutta la magia del cinema
Il senso di un’operazione editoriale come questa, da parte di Tarantino, non si riduce soltanto all’ampliamento dei personaggi e del loro mondo e alla soddisfazione delle curiosità sul loro background ma va ricercato in alcuni capitoli. Parliamo di quelli dedicati a Lancer, il serial fittizio in cui Rick Dalton deve interpretare la parte del cattivo, e in particolare, ci riferiamo alle conversazioni tra Rick Dalton e la giovanissima attrice Trudi Fraser, interprete di Mirabella, sorella del protagonista della serie. O al capitolo in cui Sharon Tate ricorda un aneddoto che fa luce sull’abilità e la caratura artistica di un regista come Polanski. In queste pagine, intrise di sfrenata e irrefrenabile passione per l’arte cinematografica (come del resto lo è lo stesso film), possiamo capire perché Tarantino ha voluto tornare su C’era una volta a Hollywood.
La trama di Lancer, che nel film è stata solamente accennata, nel romanzo assurge a una metastoria che assume una sua autonomia narrativa decisiva, imponendosi come un racconto all’interno del romanzo. Le conversazioni tra Rick e Trudi sul senso dei personaggi della serie che devono interpretare e sul tono più efficace da dare diventano un vademecum tarantiniano sull’arte di calibrare una scena, sia a livello drammaturgico, di scrittura, sia a livello interpretativo. Le sfumature, le sottigliezze, i sottotesti, la temperatura emotiva da imprimere a un dialogo e ad una intera sequenza: tutto ciò che rende un film, o una serie, davvero speciale. La cosa paradossale ed esilarante è che in queste conversazioni è sempre la piccola Trudi (di 8 anni!) a fungere da mentore al navigato Dalton, cosa che veniva già mostrata in parte nel film, ma che qui esplode in tutta la sua deliziosa, inverosimile (per l’età della piccola interprete) eppure credibile verità.
Le pagine in cui Sharon Tate ricorda un succoso aneddoto della lavorazione di Rosemary’s baby, set in cui non era presente come attrice ma solo come “signora Polanski”, sono altrettanto pregne ed emozionanti. Non vogliamo ovviamente anticipare nulla, solo aggiungere che si tratta di uno di quei racconti nel racconto in cui Tarantino, come guardando una preziosa banconota antica attraverso un raggio di sole che ne rivela la filigrana e quindi il valore, riesce a disvelare tutta la magia del cinema.
Poco importa che il violento e liberatorio climax del film manchi nel romanzo ma sia presente solo come succinto flash-forward in uno dei primi capitoli. È chiaro che a Tarantino non interessava ripetere pedissequamente, in forma romanzesca, le scene del film. Né soltanto soddisfare le curiosità dei fan sul destino dei personaggi, anche se sarà comunque interessante sapere finalmente in che modo il flambé di hippies che Dalton ha cucinato nella sua casa di Cielo Drive la notte tra l’8 e il 9 Agosto 1969 abbia determinato la sua carriera successiva. Ma, ribadiamolo, il fulcro del romanzo non è questo, bensì quelle pagine pregne di amore smisurato per la settima arte che sembrano tracimare direttamente dalla pellicola sulla carta.