Due anni fa ci lasciava Andrea Camilleri, tra i più famosi e amati scrittori italiani degli ultimi vent’anni, celebre per la sua fortunatissima serie di gialli incentrati sulla figura del commissario Montalbano e per lo stile che mescolava italiano e siciliano. Si può dire che Camilleri abbia inventato una vera propria lingua, il cosiddetto vigatese, dal nome del paese immaginario, Vigata, in cui sono ambientate le storie di Montalbano. La struttura di base è quella dell’italiano, ma nel lessico sono presenti varie parole prese dal siciliano.
Il primo romanzo di Camilleri in cui compare il commissario Montalbano fu La forma dell’acqua, pubblicato nel 1994: il titolo fa riferimento alla montatura costruita attorno all’omicidio dell’ingegner Luparello, al centro del romanzo, paragonata a un recipiente che dà all’acqua la sua forma. Appare qui per la prima volta il commissario Montalbano, il cui nome è un omaggio allo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán, autore della serie di romanzi dell’investigatore privato Pepe Carvalho, che come Montalbano è un appassionato di cucina.
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“Nell’estate del 1995 trovai, tra vecchie carte di casa, un decreto ministeriale (che riproduco nel romanzo) per la concessione di una linea telefonica privata. Il documento presupponeva una così fitta rete di più o meno deliranti adempimenti burocratico-amministrativi da farmi venir subito voglia di scriverci sopra una storia di fantasia”. Comincia così il romanzo La concessione del telefono, uno dei più bei libri di ambientazione storica scritti da Camilleri. Qui non c’è Montalbano, ma gli amanti del commissario se ne faranno una ragione perché la storia risulta ugualmente accattivante e coinvolgente. Inoltre, sebbene la vicenda sia ambientata alla fine del XIX secolo, certi risvolti, alcuni atteggiamenti e modi di fare sono di straordinaria attualità, nella scia di una storia che per l’Italia sembra sempre la stessa.
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Un coinvolgente romanzo storico-politico che trae spunto da un reale fatto di cronaca: l’assassinio di un prete corrotto. Siamo nella Vigàta di fine Ottocento: il protagonista, un “siciliano che parla genovese”, testimone dell’uccisione del prete, poche ore dopo aver reso la sua deposizione viene arrestato e accusato proprio dell’omicidio denunciato. Questo drammatico rovesciamento dei ruoli lo costringe a combattere per affermare la propria innocenza; e ci riuscirà, recuperando il suo dialetto, il siciliano, e con esso il modo di pensare dei suoi padri.
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Il birraio di Preston può essere considerato un autentico capolavoro. La vicenda è complessa, i personaggi sono numerosi, ma qui Camilleri è senz’altro riuscito a esprimere il meglio del suo talento, raccontando di un fatto accaduto più di un secolo fa, quando l’isola era da poco parte del Regno d’Italia. Se qualche spunto è reale, tratto dall’Inchiesta parlamentare sulla Sicilia del 1876, il resto è frutto di pura fantasia creativa. Tutto ruota intorno alla decisione del prefetto toscano di Montelusa di inaugurare il teatro di Vigata con la rappresentazione di un’opera lirica, appunto Il birraio di Preston, pressoché sconosciuta. Si tratta di un fatto vero, come i disordini che ne conseguirono, poiché gli abitanti si opposero fermamente a questa decisione, imposta dall’alto e perciò non di loro gradimento.
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Il nipote del Negus di Andrea Camilleri prende spunto da una vicenda realmente accaduta in Sicilia, durante i primi anni del regime fascista. Come dice l’autore nella nota finale, se alcune vicende sono del tutto inventate, “rimane pur vero il clima di autentica stupidità generale, tra farsa e tragedia, che segnò purtroppo un’epoca“. Ironico e irriverente in ogni pagina tanto che è impossibile leggere senza un sorriso che aleggia costantemente sul viso e spesso si trasforma in una sonora risata, è forse uno dei migliori romanzi di Camilleri.
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Anche nelle raccolte di racconti, Camilleri si rivela un Maestro. In questo caso siamo di fronte a trentatré brevi racconti in cui sembra esserci sempre lo zampino di Lucifero. Ogni storia è una carrellata di vizi e bassezze dell’animo umano, sempre in bilico tra bene e male.
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Andrea Camilleri, giunto alla veneranda età di 90 anni, essendo divenuto anch’egli, proprio come Tiresia, cieco, decide di vestire i panni di questo personaggio mitologico: la ragione che si cela dietro questa “trasposizione da persona a personaggio” sta nelle parole, ricordate da Camilleri, di Jorge Luis Borges: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.
Camilleri si è ben documentato e rivela la sua sconfinata cultura. La sua ricerca è minuziosa, ha raccolto quante più notizie è possibile. Cita le opere letterarie e i film che parlano di Tiresia, dialoga con vari grandi scrittori (Omero, Seneca, Dante fino ad Apollinaire, Cocteau, Virginia Woolf, Pavese, Pound, Eliot). Camilleri-Tiresia è un saggio, vede l’invisibile: quello che gli altri non riescono o non vogliono vedere. Grazie alla sua dote, distribuisce cerini che si accendono e fanno luce nella notte.
La stessa immortalità di cui gode Andrea Camilleri.
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