Per il secondo anno dovremo accontentarci di celebrarla a distanza: niente odore di camerini, niente scricchiolii di quinte mobili, niente chiacchiere nel foyer in attesa che il trillo della campanella spinga gli spettatori in sala per l’inizio dello spettacolo. Nel silenzio dei sipari “sospesi” a mezz’aria la Giornata Mondiale del Teatro che, causa pandemia, si svolgerà a porte chiuse, rinnova il tradizionale appuntamento; lo fa il 27 marzo, come da rituale da quasi sessant’anni a questa parte. Già, perché a proporla fu nel 1961 il drammaturgo finlandese Arvi Kivimaa durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro a Vienna. La prima delle giornate fu quella del 27 marzo 1962, da quel momento sarebbe stata celebrata in tutto il mondo affidando per l’occasione a una personalità di spicco della cultura, il compito di condividere una messaggio sul tema. Questa volta è toccato all’attrice Helen Mirren riflettere sul valore indiscusso del teatro: “Da quando esistono sul pianeta, gli esseri umani si sono raccontati storie. La bellissima cultura del teatro vivrà finché ci saremo”, recita un passaggio del suo discorso. Ed è per questo che a noi piace ricordare i motivi per cui festeggiare questa giornata.
L’arte è bellezza. E allora sarà l’occasione per riprendersi il “diritto alla bellezza” – come bene ha ricordato in uno dei suoi monologhi Stefano Massini –, per rivivere anche se virtualmente la magia della realtà che diventa finzione e viceversa, e riempirsi gli occhi e l’anima del paradosso della rappresentazione dal vivo, che accompagna il genere umano da millenni.
Sarà il modo più bello per riappropriarsi dell’idea di una fisicità condivisa, perché il teatro è spazio attraversato da corpi, respiri e odori, ed è luogo di cultura per eccellenza, di arte e libertà dell’ingegno.
Il teatro è come la peste, non perché è contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un gruppo, tutte le possibilità perverse dello spirito.
Antonin Artaud, uno dei più visionari drammaturghi del Novecento, vedeva il teatro come luogo di contagio spirituale. “L’azione del teatro, come quella della peste, è benefica, perché, spingendo gli uomini a vedersi quali sono, fa cadere la maschera, mette a nudo la menzogna, la rilassatezza, la bassezza e l’ipocrisia”, diceva. Il teatro è epifania, rivelazione, un’esperienza quasi sciamanica paragonabile ai riti religiosi, fa appello ai conflitti più sopiti, all’inconscio e a forme di linguaggio che non si limitano alle semplici parole di un testo. In questo senso è condivisione pura, catarsi, purificazione, e che avvenga attraverso lacrime o risate poco importa.
Il teatro è il più grande atto politico, pensiamo al potere della maschera di sovvertire e sbeffeggiare; è lo spazio della critica sociale, della libertà per eccellenza, libertà di corpi e di parole. L’aprirsi di un sipario è quanto di più sovversivo e anarchico possa esserci nel silenzio che separa la realtà dalla finzione, il pubblico dagli attori. È gioco dissacrante, tra i pochi preziosi avamposti contro l’imbarbarimento; è educazione alla riflessione, alla tolleranza e al valore della diversità.
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