La 93esima edizione degli Oscar è appena trascorsa. Come in ogni occasione, c’è chi ha portato a casa importanti statuette e chi è rimasto a bocca asciutta. Spesso e volentieri, come logico che sia nei giorni successivi l’evento, si dibatte su quale film meritava o avrebbe meritato di vincere, ognuno pronto a difendere a spada tratta i propri film preferiti della stagione. Non vogliamo sottrarci alla cosa, ed abbiamo deciso – con spirito critico e ludico, rigorosamente soggettivo – di tracciare un piccolo bilancio delle ultime 10 edizioni, andando ad individuare i film che per noi avrebbero meritato di aggiudicarsi la statuetta più ambita, quella del miglior film, senza voler andare a tutti i costi controcorrente. Ecco quindi quelli che sono i nostri migliori film da Oscar degli ultimi anni.
The Tree of Life (Oscar 2012)
L’edizione degli Oscar del 2012 ha visto il trionfo di The Artist, pellicola francese muta e in bianco e nero, capace di aggiudicarsi Oscar pesantissimi oltre a quello principale, come regia ed attore protagonista. Nonostante la peculiarità del film, la Weinstein Company fiutò il possibile exploit, acquistandone i diritti di distribuzione per gli USA e puntandoci fortemente nella stagione dei premi, vincendo su tutta la linea. La nostra preferenza per quell’edizione è però per The Tree of Life. L’opera quinta di Terrence Malick, si fece attendere molto prima di palesarsi al grande pubblico. Difatti, l’uscita internazionale del film era prevista per dicembre 2009, ma ci vollero altri due anni affinché The Tree of Life vedesse la luce. Il perfezionismo di Malick allungò i tempi di post produzione, ma i risultati gli diedero ragione. Il film venne presentato in anteprima al festival di Cannes e vinse in pompa magna la Palma d’Oro mentre all’esterno venivano versati fiumi d’inchiostro dalla stampa specializzata, che per l’occasione si divise in due, tra chi considerava il film un capolavoro e chi ne contestava la troppa complessità. Aldilà della natura filosofica dell’opera – su cui si continuerà a dibattere, come normale per pellicole di questo tipo – The Tree of Life è una sinfonia audiovisiva con pochi eguali nella storia del cinema statunitense, sia per ambizione che per bellezza. La natura elitaria del film non gli permise di ottenere troppe candidature agli Oscar (furono tre: film, regia e fotografia) ma avrebbe meritato quantomeno il riconoscimento per la fotografia eccezionale di Lubezki (che si rifarà abbondantemente col trittico tutto messicano Gravity, Birdman e Revenant). Il capolavoro di Malick è una delle pellicole fondamentali del cinema degli anni ’10 del nuovo millennio.
Amour (Oscar 2013)
Furono ben 9 i film che nel 2013 si contesero l’Oscar del miglior film. La proposta fu varia ed eterogenea, basti citare titoli come Django Unchained, Lincoln, Zero Dark Thirty , Vita di Pi e Il lato positivo. Vinse Argo di Ben Affleck, nonostante la clamorosa assenza del film nella cinquina della regia. Cinquina in cui era presente per la prima volta Michael Haneke, l’autore di Amour, nostra pellicola preferita di quell’edizione. Non accade spesso che un film straniero riesca ad ottenere nomination pesanti, ma Amour – dopo aver vinto la Palma d’Oro a Cannes – riuscì ad aggiudicarsi 5 candidature, tutte di grande importanza: miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior sceneggiatura originale e miglior film straniero, vincendo la statuetta unicamente per quest’ultima. Più che la mancata vittoria principale, in questo caso stupisce la grande considerazione che l’Academy ebbe del film. Amour è infatti un film alieno per una kermesse come quella degli Oscar. Il cinema di Haneke è un cinema duro, crudele, estremamente freddo, ed Amour – nonostante parli di amore, come da titolo – non fa eccezione, anzi. Il film infatti racconta di come la vita di due coniugi ottantenni possa venir travolta dalla malattia, e di come un sentimento come l’amore possa combattere e/o tamponare la distruzione che essa porta. Il tutto trattato con grande realismo, sobrietà di sguardo e nessuna concessione al sentimentalismo. Si tratta di un film importante, difficile, frutto di un grande autore all’apice della sua maturità artistica.
The Wolf of Wall Street (Oscar 2014)
12 anni schiavo arrivò alla vigilia della stagione dei premi come il favorito in assoluto, e riuscì a rispettare le attese. Vinse ai Golden Globe, ai Bafta e infine anche agli Oscar. Eppure, a distanza di qualche anno, possiamo dire che in quell’annata ci furono pellicole ben più capaci di innestarsi nell’immaginario collettivo, come Lei (Her), Dallas Buyers Club, Gravity e soprattutto The Wolf of Wall Street. La folle commedia firmata da Martin Scorsese e interpretata da un Leonardo Di Caprio in stato di grazia è diventata immediatamente un cult assoluto. Probabilmente per il tipo di contenuto che propone e per come lo veicola – non lesinando scene di sesso e droga, il tutto con tono demenziale – non è esattamente il prototipo di film ideale per i gusti dell’Academy. La pellicola però sta resistendo alla prova del tempo, con ripetuti passaggi televisivi, meme e quant’altro. Il film ottenne 5 candidature agli Oscar, non vincendone nessuno. La mancata vittoria di Di Caprio – a beneficio di un pur ottimo Matthew McCounaghey – infiammò il web, tant’è che col suo film successivo, Revenant – Redivivo, il buon Leo ottenne la tanto agognata statuetta forse più come un risarcimento per i mancati riconoscimenti passati che per l’interpretazione in sé, comunque più che buona e in un film importante.
Birdman (Oscar 2015)
Ebbene si, in quest’occasione i nostri gusti e quelli dell’Academy coincisero. La vittoria di Birdman agli Oscar del 2015 fu la vittoria del cinema indipendente e d’autore, aldilà dei tanti fattori che spesso influenzano i verdetti, come popolarità e politica. Birdman è infatti una pellicola esistenziale, che racconta – attraverso uno sguardo satirico sul mondo di Hollywood – il peso degli errori commessi nella vita, su quanto questi possano condizionare il presente e su come sia possibile, qualora lo fosse, liberarsene, sfuggendo alle gabbie costruite da noi stessi, dal nostro ego. Il tutto, traslato ed espresso nella grammatica cinematografica, affidando alla scelta del piano sequenza la rappresentazione della vita nel suo scorrere incessante, senza montaggio. L’ambizione del regista messicano Alejandro González Iñárritu venne premiata con quattro premi Oscar meritatissimi: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale e miglior fotografia. Fu un trionfo non scontato, visto che Birdman era un film tutto sommato dal basso budget (16,5 milioni di dollari) con divieto ai minori di 17 anni negli States. Non fu un verdetto popolare (anche se in tutto il mondo il film incassò un’ottima cifra, 103 milioni di dollari) ma probabilmente fu un verdetto giusto.
Revenant – Redivivo (Oscar 2016)
Dopo l’exploit di Birdman solo l’anno precedente, Alejandro Iñárritu era pronto a fare il bis con Revenant – Redivivo, ma dopo aver trionfato sia ai Golden Globes che ai Bafta, venne sconfitto sul filo di lana da Il caso Spotlight, pellicola d’inchiesta sui casi di pedofilia occultati dalla Chiesa cattolica. Iñárritu fece ugualmente la storia, vincendo per due anni di fila l’Oscar come miglior regista, cosa che in precedenza era riuscita solo a John Ford e Joseph L. Mankiewicz. Revenant-Redivivo d’altronde fu una e vera propria sfida tecnica per il cineasta messicano. Girato in sequenza, con luce naturale e ad una temperatura di -30 gradi, il film vide il proprio budget salire di settimana in settimana, arrivando – e forse superando – a 135 milioni di dollari. La troupe descrisse l’esperienza come un vero e proprio inferno, con le attrezzature che spesso si rompevano per colpa della temperatura proibitiva. I tanti sacrifici, economici e non, però sullo schermo si vedono tutti. Revenant – Redivivo è infatti uno dei film più spettacolari del nuovo millennio, uno di quelli capaci di far balzare lo spettatore sulla sedia per l’incredibile riuscita di alcune sequenze al limite dell’impossibile, con una mdp – guidata da Emmanuel Lubezki, qui al terzo Oscar di fila per la fotografia – estremamente fluida, capace di dare l’illusione di potersi muovere in qualsiasi direzione e in qualsiasi modo, grazie anche ad un CGI ben integrata a supporto delle riprese. Il film fu anche la pellicola del tanto atteso e desiderato Oscar come attore protagonista per Leonardo Di Caprio, alle prese con una prova muscolare e intensa.
La La Land (Oscar 2017)
Quali pellicole degli ultimi anni sono destinate a restare nel tempo, assurgendo allo status di classico? Difficile a dirsi, ma su La La Land siamo disposti a metterci una mano sul fuoco. Il musical di Damien Chazelle ha fatto subito parlare di sé, sin dall’anteprima al festival di Venezia, dove Emma Stone vinse la Coppa Volpi come miglior attrice. Eguagliò il record di 14 candidature agli Oscar di Eva contro Eva e Titanic, vincendo 6 statuette, senza riuscire però a portare a casa quella di miglior film, andata a Moonlight. Tra l’altro, a riguardo, accadde una cosa mai successa: La La Land venne decretato miglior film per errore. Produttori, regista e attori salirono sul palco a festeggiare – con tanto di classici discorsi di ringraziamento – e solo dopo, in un clima surreale e di grande imbarazzo, venne annunciato l’errore con conseguente incoronazione di Moonlight. Premi a parte, La La Land ha saputo mettere d’accordo pubblico e critica, coniugando con grande maestria il musical spettacolare – e perché no, simil disneyano – col racconto di vita quotidiana di due ragazzi intenti a realizzare i propri sogni tra mille difficoltà lavorative e sentimentali. Grande regia, ottime interpretazioni ed una colonna sonora memorabile. Cosa chiedere di più?
Chiamami col tuo nome (Oscar 2018)
Si sa, i film di genere non hanno vita facile agli Oscar. La forma dell’acqua, nonostante il suo essere un fantasy, dominò la stagione dei premi di quell’anno, iniziando con l’inaspettata vittoria del Leone d’Oro a Venezia. La matrice romantica dell’opera ha sicuramente influito sull’Academy, ma la pellicola di Guillermo Del Toro (vincitore dell’Oscar alla regia per questo film) è ben più dell’ennesima rivisitazione de La bella e la bestia; La forma dell’acqua è un film teorico sugli archetipi che da sempre muovono il cinema horror e fantastico, nonché una metafora sul cinema e sulla sua fruizione, sul suo essere un doppio catartico della realtà. Per tutti questi motivi, il trionfo del film di Del Toro non ci è affatto dispiaciuto, anzi. Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino però, probabilmente ha fatto maggiormente breccia nel nostro cuore. La sinossi del film è molto semplice e tutto sommato lo è anche lo svolgimento. Ciò che ha fatto la differenza sono stati i dettagli, la cura che Guadagnino e i suoi collaboratori c’hanno messo per tirare fuori dal film il massimo impatto emotivo e figurativo, senza tralasciare una cura per il sonoro di alto livello. Chiamami col tuo nome racconta il classico primo amore estivo (qui anche foriero della scoperta di una sessualità nuova, latente) riuscendo perfettamente a coniugare sentimentalismo e verosimiglianza, senza edulcorare nulla e senza mettere da parte gli aspetti più passionali della vicenda. Un grande fan del film è stato Paul Thomas Anderson, che all’epoca lo considerò come il miglior film dell’anno. La pellicola è stata il punto di svolta della carriera di Guadagnino, oggi il cineasta italiano più affermato e consolidato a livello internazionale.
Vice – L’uomo nell’ombra (Oscar 2019)
L’edizione degli Oscar del 2019 è stata molto equilibrata, senza una pellicola nettamente più forte delle altre, anche se in tanti – alla vigilia della stagione dei premi – davano per favorito Roma di Alfonso Cuarón. A vincere fu Green Book, deliziosa commedia di Peter Farrelly, non originalissima ma scritta ed interpretata in modo impeccabile. La nostra preferenza però va a Vice – L’uomo nell’ombra di Adam McKay. Il film è una satira sul governo Bush, incentrata in particolare sulla figura del vicepresidente Dick Cheney, mirabilmente in equilibrio tra farsa, dramma e film d’inchiesta. Si tratta di cinema politico prezioso, figlio alla lontana delle pellicole di Francesco Rosi. Dopo il già ottimo La grande scommessa (Oscar per la sceneggiatura non originale nel 2016) McKay avrebbe meritato un riconoscimento importante da parte dell’Academy, sia per la bontà e la sincerità dell’operazione, sia per la conferma del suo talento ad alti livelli.
Parasite (Oscar 2020)
Si è scritto tanto sulla storica vittoria di Parasite agli Oscar, primo film straniero a trionfare anche nella categoria principale. Anche se nessuno se lo aspettava, i tempi erano maturi per un evento del genere. Al di là della qualità del film, considerato pressoché all’unanimità uno dei migliori dell’anno – con tanto di Palma d’Oro a Cannes di cui fare sfoggio – la scelta di farlo vincere fu anche e soprattutto una reazione dell’Academy alla politica fortemente anti-inclusiva di Donald Trump. Premiare un film sudcoreano, meritevole, fu un gesto di grande apertura verso l’esterno, ancor di più se considerata la qualità media che il cinema americano era stato capace di proporre. Basti citare film come The Irishman, C’era una volta… a Hollywood, 1917, Joker (vincitore del Leone d’Oro a Venezia), Storia di un matrimonio etc etc. C’era l’imbarazzo della scelta e si sarebbe cascato bene sempre. La vittoria di Parasite ha accontentato tutti, critica e pubblico, e per tutta una serie di fattori ha soddisfatto anche noi, sperando che anche altri film stranieri possano godere dello stesso trattamento in futuro.
Sound of Metal (Oscar 2021)
Sound of Metal è un po’ la sorpresa dell’edizione degli Oscar 2021. Figlio di una produzione indipendente, si tratta dell’esordio alla regia di Darius Marder, co-sceneggiatore di Come un tuono di Derek Cianfrance. Il film inizialmente avrebbe dovuto essere diretto da quest’ultimo, che l’aveva concepito in base ad un’esperienza di vita personale (scoprì di soffrire di acufene proprio quando suonava come batterista). I tanti impegni hanno fatto sì che il progetto passasse tra le mani di Marder e fortunatamente i risultati sono stati più che buoni. C’era il timore, infatti, che Sound of Metal fosse un po’ un Whiplash dei poveri. I due film, a parte l’avere un protagonista batterista, in realtà hanno ben poco in comune. Il film di Marder infatti segue in maniera quasi documentaristica il percorso di riabilitazione ed inserimento nella società del protagonista che, dopo aver perso completamente l’udito, si ritrova costretto a ricostruire la propria vita da zero, a rimodularla in base all’handicap maturato grazie all’aiuto di una comunità di persone sorde. Il film è un piccolo capolavoro, perché riesce a trovare un grande equilibrio nel mix tra fiction e riproduzione, affidandosi sia ad uno script lucido e solido, sia a degli espedienti prettamente cinematografici come fotografia e sonoro, centrali nel permettere allo spettatore di vivere un’esperienza immersiva, di forte impatto emotivo. Distribuito da Amazon sulla sua piattaforma streaming, Sound of Metal ha ottenuto 6 candidature agli Oscar, tra cui spiccano – oltre a quella come miglior film – quelle per i due attori, protagonista e non, Riz Ahmed e Paul Raci. Entrambi hanno offerto delle prove di altissimo livello e Raci, figlio davvero di genitori sordi, ha raccolto parecchi riconoscimenti importanti, come il National Board of Review. La vittoria finale è andata a Nomadland, giunto alla cerimonia degli Oscar da stra-favorito, ma Sound of Metal è riuscito comunque a portare a casa due statuette – quelle per il montaggio e il sonoro – riconoscimenti importanti e non scontati, che di solito vanno a braccetto con grandi produzioni ricche di effettistica.