A distanza di dieci anni dalla première del Festival di Cannes, Drive, tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis, rimane ancora oggi una pietra miliare nel suo genere. (Ri)scopriamo insieme, quindi, gli aspetti salienti ed estetici che fanno di Drive uno tra i migliori film di Nicolas Winding Refn.
La trama
A Los Angeles il taciturno, misterioso e anonimo protagonista (interpretato da Ryan Gosling e che, per comodità, da qui in avanti sarà identificato come Driver, ndr.) conduce una doppia vita: meccanico e stuntman per i film d’azione di giorno, esperto e freddo autista per rapinatori di notte. Finché una sera, di rientro a casa dopo un colpo andato a buon fine, conosce Irene (Carey Mulligan), vicina e madre di Benicio, bambino che attende il ritorno di suo padre Standard (Oscar Isaac) che sta finendo di scontare la sua pena in carcere. Tra Driver e Irene, presto, nasce un’apparente amicizia che, lentamente, si trasforma in amore. Ma il rilascio di Standard fa crollare l’idillio tra i due. A complicare la situazione, ci pensa l’aggressione che, il marito di Irene, subisce pochi giorni dopo. L’uomo deve un’ingente somma di denaro a due gangster, in quanto gli hanno offerto protezione durante la permanenza dietro le sbarre. Per estinguere il debito, Standard si vede costretto a prendere parte a una rapina, alla quale partecipa, in veste di autista, lo stesso Driver. Ma il colpo finisce nel sangue: Standard viene ucciso e Driver, con le spalle al muro e braccato, deve difendersi.
Estestica anni Ottanta
Opera prima cinematografica in terra stelle e strisce del danese Nicolas Winding Refn, regista di The Pusher e Valhalla Rising, fin dalle battute iniziali Drive connubia, alla perfezione, ricercatezza visiva e contenuto. Merito della fotografia cristallina di Newton Thomas Sigel e di una regia tanto solida quanto priva di qualsivoglia sbavatura. Ciò che più risalta all’occhio dello spettatore, dall’inizio del minutaggio, è una certa estetica anni Ottanta che trasuda e prende forma frame by frame. Luci al neon, una metropoli tentacolare e notturna nonché un sound in tema fanno di Drive un lavoro sì degli anni Duemila ma che vive e si nutre di un’intera decade cinematografica passata (e non solo).
Tra citazionismo e identità propria
Il film di Refn è un thriller metropolitano in cui la lectio di Michael Mann sulla gestione degli spazi urbani nonché l’elevazione, della città, a vero e proprio personaggio in scena è forte e vibrante: nelle peregrinazioni notturne del protagonista, Los Angeles assume un aspetto iperrealista, vibrante, nitido, vivo. Ed è proprio qui che un certo citazionismo a metà strada tra Scorsese ed Eastwood prende le mosse rendendo sì Drive un lungometraggio in cui, le influenze di molti registi, sono ben percepibili ma, al tempo stesso, riesce ad avere una identità propria, diventando così un ibrido tra vecchio e nuovo, tra mainstream e autorialità. Un film dicotomico, quindi, che si articola tra manierismi registici e momenti più lenti.
Romanticismo, nichilismo e violenza
Sono proprio le sequenze più lente che, in Drive, fanno da precursore a momenti decisamente più intensi. I ralenti e i silenzi verbali abbondano in Drive subito prima che, qualcosa di decisivo, avvenga come la famigerata quanto imprevedibile sequenza dell’ascensore in cui, romanticismo e morte, si mescolano in un crescendo spiazzante. Difatti, l’opera di Nicolas Winding Refn ha insita in sé una doppia natura: un lato votato a un certo tipo di romanticismo struggente ma sfuggente, un altro lato permeato da un nero nichilismo che, purtroppo, condanna il protagonista a gesti di extrema ratio e scoppi di violenza, pur di mettere al sicuro chi ama e se stesso. In novanta minuti di durata si assiste a un ribaltamento del plot, facendo della seconda parte di Drive una vera e propria catabasi in un Inferno in Terra fatto di morti ammazzati, sangue e poche via di fuga.
A Real Hero
Drive è un’opera filmica di alta caratura: tra thriller e noir, il lavoro di Refn è la mise en scène di un anti(eroe) dei nostri tempi, un cavaliere solitario senza nome e senza radici che non esita a sporcarsi le mani, pur di aiutare chi è in difficoltà e garantire, così, un futuro migliore. Eppure, non vi è alcun canonico Happy End. Non ci sono vincitori né vinti nel finale di Drive, semmai solo un altro, decisivo peregrinaggio notturno tra le arterie fatte di asfalto di una città che si estende a perdita d’occhio. Arricchito dalle interpretazioni di un cast di prim’ordine e impeccabile sul versante scenotecnico, a distanza di dieci anni dalla prima (valsa il Premio per la migliore regia nella 64 ͣ edizione del Festival di Cannes) e dalla successiva uscita nelle sale, rimane un cult imperdibile per gli amanti della Settima arte.