Questo articolo fa parte di Vita di Api, la rubrica di Chiara Apicella anche su Facebook e Instagram.
Una missione persino più complicata dell’accettare gli altri è l’accettare sé stessi, ed è significativo che le due imprese siano così direttamente proporzionali. In genere gli intolleranti sono i più insicuri, e parlo con cognizione di causa, perché io passo la vita a sbraitare, da pedone contro gli automobilisti, e da automobilista contro i pedoni e contro gli altri automobilisti. E mi scaglio ogni giorno contro chi penso esprima idee intransigenti su Facebook, proprio come farebbe uno qualunque degli assurdi personaggi della serie animata I Griffin. A volte (inteso come “più volte durante la giornata”) la mia linfa vitale è l’indignazione verso qualcuno, che mi dà quella dose di autostima necessaria per arrivare alla sera sentendo di aver svolto il mio compito: quello dell’indignata. Ciò che voglio dire è che chi firma quest’articolo non parla dall’alto di un’accettazione di sé finalmente raggiunta: tutt’altro. Proprio perché so di essere ancora pienamente invischiata in un’insicurezza da teen-ager, penso di avere i requisiti giusti per fornire alcuni consigli per accettarsi, validi almeno in teoria. È sempre la pratica che mi umilia.
Tendere ogni giorno all’automiglioramento è molto saggio, ma non deve diventare un ulteriore motivo di stress nella nostra vita. Se veniamo bocciati a un esame difficile o se quello che consideravamo il nostro capolavoro letterario non viene pubblicato, non ne va della nostra qualità come persone. Noi rimaniamo sempre noi: non corrispondiamo a quanti punti accumuliamo sul tabellone. Ogni obiettivo raggiunto è giustamente da festeggiare, ma la percezione che abbiamo di noi stessi deve dipendere da altro, altrimenti ancora una volta deleghiamo la nostra immagine a un giudice esterno, che a volte paradossalmente siamo proprio noi, così pieni di preconcetti, così privi di indulgenza verso la nostra storia. Siamo molto più complessi di una parola che ci descriva: “mamma”, “dottore”, “saltimbanco” non contengono neanche l’ombra di ciò che siamo. Quindi, a ogni delusione lungo il nostro tragitto, diamoci una pacca solidale sulla spalla (io sussurro tra me e me anche qualche parolina di conforto, ma mi rendo conto che ad alcuni possa sembrare inquietante) e siamo onesti con noi stessi: l’obiettivo che ci eravamo prefissi era realistico e rimane desiderabile ai nostri occhi? A volte siamo così offuscati dall’ansia di vincere una maratona, di far innamorare qualcuno, di diventare dei fisici nucleari, che non ci soffermiamo neanche a riflettere se nel frattempo le nostre aspirazioni sono cambiate. E non ci sarebbe niente di male ad ammetterlo ad alta voce davanti allo specchio. Sì, per me parlare da sola è terapeutico, lo confesso. Ma se condividete con me questi banalissimi quattro punti su come amarvi di più, proviamo insieme a metterli in pratica: io ci lavoro strenuamente da vent’anni.
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