Questo articolo fa parte di Vita di Api, la rubrica di Chiara Apicella anche su Facebook e Instagram.
Una missione persino più complicata dell’accettare gli altri è l’accettare sé stessi, ed è significativo che le due imprese siano così direttamente proporzionali. In genere gli intolleranti sono i più insicuri, e parlo con cognizione di causa, perché io passo la vita a sbraitare, da pedone contro gli automobilisti, e da automobilista contro i pedoni e contro gli altri automobilisti. E mi scaglio ogni giorno contro chi penso esprima idee intransigenti su Facebook, proprio come farebbe uno qualunque degli assurdi personaggi della serie animata I Griffin. A volte (inteso come “più volte durante la giornata”) la mia linfa vitale è l’indignazione verso qualcuno, che mi dà quella dose di autostima necessaria per arrivare alla sera sentendo di aver svolto il mio compito: quello dell’indignata. Ciò che voglio dire è che chi firma quest’articolo non parla dall’alto di un’accettazione di sé finalmente raggiunta: tutt’altro. Proprio perché so di essere ancora pienamente invischiata in un’insicurezza da teen-ager, penso di avere i requisiti giusti per fornire alcuni consigli per accettarsi, validi almeno in teoria. È sempre la pratica che mi umilia.
1. La vita non è una gara
Fin da quando giocavamo con le Polly Pocket o a Super Mario, concepiamo la vita come una perenne gara con i nostri coetanei. Vince chi è più bionda o chi è più bravo a palla avvelenata, chi ha più giocattoli, poi chi piace di più al sesso opposto, chi è più popolare, chi ha più piercing, chi è più curvilinea o chi è più muscoloso, chi ha la battuta pronta, chi rigetta le regole con più stile. Poi chi si laurea con più successo, chi ottiene prima un lavoro, chi si fidanza e si sposa prima, chi produce prima un pargolo, chi ne fabbrica addirittura un secondo o un terzo. E questi ultimi traguardi, inutile a dirsi, valgono soprattutto per le donne: su di loro, da una certa età in poi, pende una gigantesca mannaia appesa a un filo, che cala via via che i mesi trascorrono senza il patentino di madre tra altre madri. Ogni tanto però ce lo ricordiamo: la vita non è una competizione, ma un viaggio. Non importa quanti figli si raggruppano ogni domenica intorno al barbecue dei vicini, o quanti master ha conseguito il nostro collega universitario che sembrava meno sagace di noi. Importano solo il nostro percorso, le nostre tappe, la nostra crescita, secondo i nostri personalissimi tempi. Nient’altro.
2. Ognuno è bello a modo suo
Suona come un contentino, sulla scia di “non è bello, ma è un tipo”. Eppure è un’acquisizione importantissima e quasi impossibile da raggiungere prima dei vent’anni. I famosi complessi fisici, motivo di infelicità soprattutto adolescenziale, di certo non aiutano a vivere bene, e non servono assolutamente a nulla. Ricordate le lacrime spese per un naso che sentivamo troppo grosso, o per un corpo che giudicavamo goffo e sgraziato, spesso messo dolorosamente a confronto con quello snello e scattante dei nostri coetanei? Magari adesso quelle lacrime ci sembrano lontane e ne sorridiamo inteneriti. Ma quanto tempo abbiamo perso, e spesso continuiamo a perdere, dietro a un tipo di insoddisfazione tutt’altro che costruttiva? E ci dimentichiamo che la forza che accomuna e allo stesso tempo distingue ciascuno di noi è l’unicità: come per i fiocchi di neve, tutti perfetti e non replicabili. Il naso ci serve per odorare, le orecchie per sentire: non ha importanza se il primo è aquilino o all’insù. Proviamo a inspirare e a espirare profondamente, mentre ci ricordiamo a cosa serve quella eccezionale impalcatura con due narici. Il nostro corpo è la nostra casa, ed è certamente gratificante curare il terrazzo o spazzare la polvere sotto il tappeto e vedere intorno tutto pulito. Ma la nostra casa rimane unica, e dobbiamo esserle grati, apprezzarla, e fare spallucce se non tutti gli ospiti ne intuiscono il valore: non li inviteremo alla cena successiva e ce ne faremo ampiamente una ragione.
3. Coltivare la propria parte sognante
Ognuno di noi custodisce quella scintilla magica che gli fa inarcare le labbra in un sorriso nostalgico quando ci pensa. Che sia un ricordo, un’aspirazione, un’immagine serena che la sua mente ha creato, poco importa: è un rifugio interiore che lo fa sentire al calduccio. Forse perché la mia parte infantile è preponderante su quella adulta, ho sempre pensato che conservare un po’ di quella ingenuità sia una salvezza. Non tutto dev’essere pianificato o razionalizzato: possiamo lasciare qualcosa al sogno, all’aleatorietà dei pensieri che ci fanno stare bene, anche se si rivolgono a un passato o a un futuro fumosi, a un libro o a un film che ci sembra di abitare. Io la chiamo sinteticamente “atmosfera”, ma ognuno si figura questo mondo impercettibile di sensazioni balsamiche come meglio crede. Di certo è un territorio estremamente personale: il paesello natio a cui fare visita con la mente di tanto in tanto, e che ci ricorda davvero chi siamo.
4. Essere onesti con sé stessi
Tendere ogni giorno all’automiglioramento è molto saggio, ma non deve diventare un ulteriore motivo di stress nella nostra vita. Se veniamo bocciati a un esame difficile o se quello che consideravamo il nostro capolavoro letterario non viene pubblicato, non ne va della nostra qualità come persone. Noi rimaniamo sempre noi: non corrispondiamo a quanti punti accumuliamo sul tabellone. Ogni obiettivo raggiunto è giustamente da festeggiare, ma la percezione che abbiamo di noi stessi deve dipendere da altro, altrimenti ancora una volta deleghiamo la nostra immagine a un giudice esterno, che a volte paradossalmente siamo proprio noi, così pieni di preconcetti, così privi di indulgenza verso la nostra storia. Siamo molto più complessi di una parola che ci descriva: “mamma”, “dottore”, “saltimbanco” non contengono neanche l’ombra di ciò che siamo. Quindi, a ogni delusione lungo il nostro tragitto, diamoci una pacca solidale sulla spalla (io sussurro tra me e me anche qualche parolina di conforto, ma mi rendo conto che ad alcuni possa sembrare inquietante) e siamo onesti con noi stessi: l’obiettivo che ci eravamo prefissi era realistico e rimane desiderabile ai nostri occhi? A volte siamo così offuscati dall’ansia di vincere una maratona, di far innamorare qualcuno, di diventare dei fisici nucleari, che non ci soffermiamo neanche a riflettere se nel frattempo le nostre aspirazioni sono cambiate. E non ci sarebbe niente di male ad ammetterlo ad alta voce davanti allo specchio. Sì, per me parlare da sola è terapeutico, lo confesso. Ma se condividete con me questi banalissimi quattro punti su come amarvi di più, proviamo insieme a metterli in pratica: io ci lavoro strenuamente da vent’anni.