Nel 1991 Bret Eston Ellis, autore di Meno di zero e Le regole dell’attrazione, consegnava alle stampe quello che, con molte probabilità, è il suo romanzo più controverso: American Psycho (ed. Einaudi, disponibile su Amazon.it). Tra satira, grottesco e orrore, il libro di Ellis rimane uno dei punti cardine della letteratura degli anni Novanta. Adattato per il grande schermo dalla regista Mary Harron nel 2000, (ri)scopriamone insieme gli aspetti allucinanti ma riflessivi in occasione dei trent’anni di un romanzo imperdibile.
La trama
New York, anni Ottanta. Il ventisettenne Patrick Bateman, laureato ad Harvard, è uno yuppie di successo a Wall Street. Fidanzato, elegante e professionale, al tempo stesso Patrick è un uomo superficiale, che si circonda di amici e colleghi identici, in toto, a lui. Maniaco dalla perfezione fisica, di cui se ne prende cura con intensi allenamenti, e preparatissimo sulla moda maschile, l’esperto di finanza trascorre le serate tra cocktail, droghe e sesso sfrenato nei club e locali più in della metropoli. Tuttavia, Patrick ha delle ossessioni ricorrenti: riuscire a prenotare un tavolo al Dorsia, uno dei ristoranti più esclusivi della Grande Mela frequentato, nientemeno, da Donald Trump, suo idolo, riuscire a carpire più informazioni sul famigerato portafoglio Fisher gestito dal collega Paul Owen, noleggiare ogni sera la stessa VHS di un film porno e non saltare neanche una puntata del Patty Winters Show, incentrato sui casi umani. Tra parvenza di impeccabilità e mancanza di freni, Bateman nasconde molto di più: la notte, il rampante giovane si trasforma in uno spietato serial killer dai tratti veramente mostruosi.
Bret Easton Ellis, veggente della vacuità sociale
Leggendo American Psycho ciò che traspare in prima battuta, pagina dopo pagina, è la creazione di immagini grazie al sapiente, diretto e crudo stile narrativo caratterizzante Bret Easton Ellis, autore che è stato ed è capace, senza autocensura alcuna, di consegnare al lettore uno spaccato, lucido e realistico, di un certa vacuità sociale. Considerando l’anno di uscita (l’inizio dell’ultima decade del XX secolo), l’opera correva veloce e in anticipo sui tempi, fornendo una anteprima su quegli aspetti legati a una difficoltà di accettazione dell’individuo e – al tempo stesso – la correlata crisi di identità che porta, inevitabilmente, verso una critica, quanto pericolosa, frattura dell’Io rappresentante un salto verso il baratro. Argomenti, questi, che molto probabilmente nel pieno dell’era 3.0 legata ai social e ai mass media sempre più presenti e, per certi versi, anche invadenti, potrebbe risultare carica di una certa dose di ovvietà però, se si procede analizzando in parallelo casi di cronaca attuali a quelli che sono i contenuti scomodi di un’opera letteraria come American Psycho, ci sono buone probabilità di rimanere sbigottiti di come Ellis abbia previsto, con una vicenda sì di stampo squisitamente narrativo e da fiction, la smaterializzazione e, parimenti, un certo impoverimento dei valori che contraddistinguono l’etica dell’essere animali social(i) in cambio di un estremizzante quanto fuori controllo narcisismo dell’individuo.
Ossessioni compulsive e deliri a occhi aperti
Il protagonista di American Psycho rappresenta tutto quello che può essere associato alla parola successo: bella presenza, physique du rôle, un patrimonio economico elevato, un lavoro da sogno, donne, lusso. Ma il lato oscuro di Patrick Bateman viene placato, solo apparentemente, dal suo status symbol. Dietro la maschera da sciupafemmine e genio della finanza, anche le sue stesse ossessioni compulsive diventano, ben presto, un vuoto, un’incapacità nel provare un vero interesse in ciò che fa portandolo, così, verso una noia del vivere che sfocia inizialmente lenta e, successivamente, in maniera esplosiva: la trasmutazione in cacciatore, predatore, bestia feroce rende Bateman vivo, capace di trovare una valida motivazione alla sua vita piena ma, al tempo stesso, vuota di normalità, di semplicità, di veri affetti o sentimenti puri. In American Psycho si assiste alla decostruzione del mythos della ricchezza e del self made man a essa correlato, a uno sprofondamento in un cupo gorgo, una catabasi verso il più orribile e impenetrabile girono infernale. E qui entra non di straforo bensì con un certo impatto emotivo e scenico la componente puramente horror di American Psycho: terribili omicidi, mutilazioni, torture e atti di cannibalismo che fomentano Bateman ad andare oltre, a spingere il pedale dell’acceleratore della sua carriera a Wall Street. È un placare la sua smaniosa voglia di successo, di prevaricazione sul prossimo e, purtroppo, di incapacità di controllare l’eccesso. Nel momento in cui il dark side, l’animo nascosto del personaggio principale viene alla luce, American Psycho vira, con durezza, verso un delirium tremens a occhi aperti.
Portrait of a Serial Killer?
Se è vero che, da una parte, American Psycho si attesta dalle parti della satira sociale permeata da elevati picchi di grottesco e di black humour mentre, dall’altra parte, verso i lidi più puri del genere dell’orrore, è solo arrivando nelle parti conclusive del romanzo che Ellis riserva una certa dose volontaria e calcolata di ambiguità. Lo scrittore ha creato un impeccabile identikit, un habitus per il suo protagonista che vive e si muove in questa perenne, dicotomica quanto ciclica personalità nonché realtà ma, nonostante un’altra delle passioni insane di Bateman sia più volte portata all’attenzione del lettore, ossia la conoscenza a menadito dei più efferati serial killer della storia e ciò lascia pensare che lo yuppie sia, a tutti gli effetti, uno psicopatico assassino, nel risolutivo quanto in sospeso finale la verità su chi sia per davvero Patrick Bateman viene lasciata da interpretare al lettore. Viaggio allucinato in una mente sì perversa ma preda della sua stessa insana e contorta fantasia oppure crudele ritratto di un serial killer? La grandiosità di un classico della letteratura post contemporanea risiede in questo: al pari del Fight Club di Chuck Palahniuk, anche American Psycho non vuole rivelare quella che è, effettivamente, la sua natura sguazzando, in accezione positiva, nell’ambiguità narrativa e, considerando l’omonima trasposizione cinematografica, filmica di uno tra i titoli più spiazzanti e scioccanti della cultura umana.
Quella non è la via d’uscita
Realtà dei fatti o lucido e vigile incubo da sveglio? Questo è il grande interrogativo che si erge nella mente del lettore dopo aver portato a termine le pagine del romanzo, dopo aver letto quell’ultima frase che mette la parola fine (ammesso che di fine canonica si possa parlare) alle grottesche e annichilenti vicende di Patrick Bateman, un uomo che incarna tutto e il contrario di tutto, il modello plasmato dal glamour e dall’economia degli anni Ottanta, il frutto di una decade iperattiva come lo stesso protagonista di American Psycho. Sicuramente, il terzo romanzo di Bret Easton Ellis, a distanza di ben tre decenni, mantiene ancora intatta la sua carica di attualità a posteriori, confermandosi come un affresco antropologico iperviolento e surreale ma, contemporaneamente, imprescindibile nella propria biblioteca personale per capacitarsi di come, quella società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman, probabilmente non è solo ed esclusivamente figlia degli anni Duemila. Un romanzo non per tutti i palati bensì per stomaci davvero forti che, a lettura avvenuta, solleva più di una lecita domanda su quell’American Way of Life tanto osannata quanto pieno di crepe e falle.