La storia italiana recente è ricca di casi di cronaca nera che ancora non hanno trovato una soluzione. Per anni hanno occupato le prime pagine dei giornali e tenuto col fiato sospeso l’opinione pubblica, mentre si susseguivano ricerche, indagini e processi. Nonostante le diverse piste e i numerosi sospetti, infatti, questi delitti rimangono, ancora oggi, privi di un reale colpevole. Oppure, come nel caso del Mostro di Firenze, la giustizia ha saputo individuare solamente gli esecutori materiali, lasciando dietro di sé dubbi e lacune.
In questo articolo abbiamo provato a ricostruire quelli che sono i misteri irrisolti italiani più famosi, più inquietanti, i delitti più efferati commessi nel nostro paese e che ancora non hanno trovato giustizia.
1. Il Mostro di Firenze
È forse il più famoso mistero irrisolto della storia italiana, un incubo che ha perseguitato le colline toscane dal 1968 al 1985 e che, ancora oggi, non ha trovato una soluzione convincente: stiamo parlando, ovviamente, del Mostro di Firenze. Mostro di Firenze è l’appellativo utilizzato dai media italiani – e poi entrato nell’uso comune – per riferirsi all’autore (o autori) di sette duplici omicidi avvenuti nelle zone boschive della provincia di Firenze tra il 1974 e il 1985. Più probabilmente di otto omicidi, considerando quello di attribuzione incerta – ma caratterizzato dalle medesime dinamiche – datato 1968. Una scia di crimini ai danni di giovani coppie che avevano l’abitudine di appartarsi nella campagna toscana e che sconvolse la società italiana dell’epoca, terrorizzata dall’idea di un serial killer di quelli che, al tempo, si erano visti solamente in televisione. Si tratta, infatti, del primo caso di omicidi seriali riconosciuto nel nostro Paese.
Modus operandi
Il Mostro di Firenze era solito colpire giovani coppie di ragazzi appartate in macchina nei dintorni del capoluogo toscano, in notti molto buie e, in particolare, nei fine settimana del periodo estivo. Per compiere gli omicidi, venivano utilizzate una o più armi bianche e sempre la stessa pistola: una Beretta calibro 22 Long Rifle serie 70, caricata con munizioni Winchester marcate con la lettera H sul fondello del bossolo. Il serial killer sparava prima alla vittima maschile e, successivamente a quella femminile; la ragazza veniva poi generalmente allontanata dall’auto e dal partner, martoriata da colpi di arma da taglio e violata da escissioni, in particolare della zona del pube.
Gli esiti giudiziari
Le indagini per risalire all’identità del Mostro di Firenze furono lunghe e travagliate e portarono all’identificazione dei soli esecutori materiali degli omicidi: nel 2000, infatti, furono condannati i cosiddetti compagni di merende Mario Vanni e Giancarlo Lotti mentre, Pietro Pacciani, fu assolto in appello e morì prima di poter essere sottoposto a un nuovo processo. Una verità processuale lacunosa e poco convincente, che lascia aperte numerose ipotesi sui mandanti.
2. La strage di Ustica
Il 27 giugno 1980 alle ore 20:08, il volo di linea IH870 della compagnia aerea Itavia parte dall’aeroporto di Bologna-Borgo Panigale con destinazione Palermo-Punta Raisi. Non arriverà mai: alle ore 20:59, infatti, il veicolo rimane coinvolto in un terribile incidente, inabissandosi nel tratto di mare compreso tra le isole di Ponza e Ustica. Muoiono tutte le 81 persone a bordo (61 adulti e 12 bambini), tra passeggeri ed equipaggio; un dato drammatico che rende quello di Ustica il quarto disastro aereo italiano per numero di vittime, dopo quelli del volo Alitalia 4128, del volo Alitalia 112 e di Linate.
Le dinamiche dell’incidente
Dopo essere partito da Bologna alle 20:08, con un ritardo di 113 minuti, il volo IH870 prosegue il suo viaggio come da tabella di marcia, fino alle 20:59, ora dell’ultimo contatto radio tra velivolo e il controllore procedurale di Roma. Alle 21:04, chiamato per l’autorizzazione di inizio discesa su Palermo, il volo IH870 non risponde; venti minuti più tardi, il Comando del soccorso aereo di Martina Franca dà il via alle ricerche. Queste vanno avanti per tutta la notte, ma solo alle prime luci dell’alba del 28 giugno, un elicottero individua alcuni detriti in affioramento a circa 110 km a nord di Ustica, confermando che il volo Itavia si era inabissato nel Mar Tirreno, insieme a tutti i passeggeri e al suo equipaggio. Delle 81 persone a bordo, furono recuperate solamente 39 salme. Dall’esame della scatola nera dell’aereo, recuperata a oltre 3000 metri di profondità dopo diversi anni, è stato possibile ripulire gli ultimi secondi della registrazione:
Allora siamo a discorsi da fare… […] Va bene i capelli sono bianchi… È logico… Eh, lunedì intendevamo trovarci ben poche volte, se no… Sporca eh! Allora sentite questa… Guarda, cos’è?
Le ipotesi
La magistratura non è mai riuscita ad appurare cosa sia successo esattamente al volo Itavia 870, a causa degli occultamenti e della distruzione di molti registri e nastri radar di alcune torri di controllo sul Tirreno. Esistono, comunque, diverse ipotesi a riguardo. La più accreditata – e sostenuta anche dall’allora Presidente del Consiglio Francesco Cossiga – sostiene che l’aereo sia stato colpito da un missile francese che aveva come vero obiettivo un velivolo libico sul quale viaggiava Gheddafi. Un’altra teoria è quella che sull’aereo ci fosse una bomba e che il volo sia stato abbattuto per un attentato terroristico. Una terza e meno accreditata fa riferimento a un improbabile cedimento strutturale dell’aereo.
3. La sparizione di Emanuela Orlandi
Tra i casi di cronaca nera italiani più conosciuti c’è sicuramento quello che riguarda la sparizione di Emanuela Orlandi. Figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia e, quindi, cittadina dello Stato Vaticano, la 15enne sparì nel nulla il 22 giugno del 1983, mentre tornava a casa dalla scuola di musica in piazza Sant’Apollinare a Roma. Prima di far perdere definitivamente le sue tracce, Emanuela telefonò alla sorella Federica, dicendole che un uomo l’aveva fermata per strada proponendole un lavoro come promoter per una nota marca di cosmetici. In seguito, fu appurato che la ditta in questione non aveva nulla a che vedere con quel tipo di offerta di lavoro. Il caso coinvolse, tra gli altri, lo stesso Stato Vaticano, la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano e i servizi segreti di diversi Paesi, rimanendo, ad oggi, ancora un mistero irrisolto.
Quelle strane telefonate
Nei giorni successivi alla scomparsa di Emanuela, iniziarono ad arrivare alla famiglia diverse telefonate, per lo più ad opera di mitomani. Tra queste, però, ce ne sono alcune che si rivelarono attendibili: il 25 giugno giunse agli Orlandi una chiamata da parte di un certo Pierluigi che fornì alcuni dettagli tutti riconducibili ad Emanuela, rifiutandosi, però, di incontrare i familiari. La versione di Pierluigi venne poi confermata dalla telefonata del 26 giugno di un certo Mario, che parlava come se venisse istruito da qualcun altro. Entrambi gli uomini sostenevano che la ragazza si facesse chiamare Barbara.
Dal 5 luglio, dopo l’appello di papa Giovanni Paolo II durante l’Angelus, iniziarono una serie di chiamate (in tutto 16) alla sala stampa vaticana e alla famiglia Orlandi, da parte di un uomo dall’accento spiccatamente anglosassone e, per questo, ribattezzato l’Amerikano. L’uomo affermò di essere in combutta con Pierluigi e Mario e di tenere in ostaggio Emanuela, richiedendo poi l’attivazione di una linea telefonica diretta con il Vaticano. Inoltre, chiamava in causa Ali Ağca, l’uomo che aveva sparato a Giovanni Paolo II due anni prima, chiedendo al Pontefice la sua liberazione entro il 20 luglio.
L’Amerikano chiamò anche a casa Orlandi, facendo ascoltare ai genitori un nastro con registrata la voce di ragazza, forse di Emanuela, che ripeteva sei volte una frase: «Scuola: Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II, dovrei fare il terzo liceo ‘st’altr’anno… scientifico». Nonostante le numerose richieste avanzate dall’uomo misterioso, non vi furono mai prove del fatto che Emanuela fosse in vita e che fosse ostaggio dei Lupi grigi, organizzazione della quale faceva parte Ağca.
La Banda della Magliana
Una possibile svolta arrivò l’11 luglio 2005, quando alla redazione del celebre programma Chi l’ha visto? giunse una telefonata anonima in cui si diceva che, per risolvere il caso della sparizione di Emanuela Orlandi, bisognava andare a vedere chi era sepolto nella basilica di Sant’Apollinare e indagare sul “favore che Renatino fece al cardinal Poletti”. Emerse, così, che il defunto sepolto nella basilica altri non era che un boss della Banda della Magliana, Enrico De Pedis, detto, appunto, Renatino. In base alle successive dichiarazioni di persone legate all’organizzazione mafiosa, come Sabrina Minardi, diventò sempre più plausibile il fatto che la Banda della Magliana si fosse occupata del rapimento di Emanuela, forse per far pressione sul Vaticano a causa dei soldi che la banda aveva perso a causa del crack del Banco Ambrosiano. Nonostante tutte le ipotesi, comunque, ad oggi non si sa nulla di certo su quale sia stato l’effe
4. Il delitto di Via Poma
Il 7 agosto del 1990 Simonetta Cesaroni veniva trovata morta all’interno dell’ufficio in cui lavorava, al terzo piano del complesso di Via Poma 2, a Roma. Nata il 5 novembre del 1969 e residente nel quartiere Cinecittà, Simonetta era occupata da qualche mese presso uno studio commerciale che aveva tra i suoi clienti l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù e, alcuni giorni alla settimana, prestava lavoro come contabile proprio presso gli uffici in via Poma 2. Una ragazza estremamente responsabile e riservata, che si divideva tra la famiglia, il lavoro e il fidanzato Raniero Busco. Nonostante gli oltre vent’anni di indagini, le diverse piste investigative e il grande interesse da parte dell’opinione pubblica, quello di Via Poma rimane, ad oggi, un delitto irrisolto.
La scoperta del corpo
É il pomeriggio del 7 agosto 1990 e Simonetta Cesaroni si trova presso gli uffici di Via Poma per sbrigare alcune pratiche; dovrebbe chiamare il proprio datore di lavoro, Salvatore Volponi, verso le 18:00/18:15 ma l’uomo non riceverà mai alcuna telefonata. L’ultimo segno di vita di Simonetta, infatti, può essere fatto risalire alle 17:15, quando la ragazza fa una telefonata di lavoro alla collega Luigia Berrettini. Alle 21:30, preoccupati per l’insolito ritardo, la sorella di Simonetta e il suo fidanzato Paolo, decidono di farsi scortare presso gli uffici di Via Poma da Volponi che, secondo quanto verrà riportato dai ragazzi, appare estremamente nervoso e sembra voler ritardare a tutti i costi l’arrivo allo stabile. Finalmente, alle 23:30, riescono a farsi aprire la porta dell’ufficio dalla moglie del portiere, trovando, così, il corpo senza vita di Simonetta. Il cadavere è riverso a terra, completamente nudo, eccezion fatta per il reggiseno allacciato ma calato sul basso e un paio di calzini, e presenta numerose ferite d’arma da taglio (forse un tagliacarte), 29 in tutto. La stanza risulta in ordine e le scarpe di Simonetta accuratamente riposte vicino alla porta, ma molti dei suoi effetti personali non verranno mai ritrovati, come gli orecchini, un anello, un bracciale e un girocollo (tutti d’oro) e le chiavi dell’ufficio.
I sospettati
I sospettati principali dell’omicidio di Simonetta Cesaroni furono due: il portiere dello stabile di Via Poma, Pietro “Pietrino” Vanacore, e il fidanzato dell’epoca della ragazza, Raniero Busco. Fermato dalla polizia tre giorni dopo il delitto, Pietrino Vanacore fu il primo a essere sospettato dagli inquirenti, a causa di alcune tracce di sangue sui suoi pantaloni (risultate poi essere un esito delle emorroidi dello stesso) e della sua assenza nel cortile dello stabile proprio nell’orario in cui si sarebbe compiuto il delitto. Il 26 aprile 1991, le accuse contro Vanacore vennero archiviate, ma, a distanza di alcuni anni, l’uomo fu coinvolto in una seconda indagine basata sulla tesi che qualcuno avrebbe potuto inquinare la scena del crimine. Il 9 marzo 2010, stanco di anni di sofferenza e sospetti, Vanacore si suicidò, lasciandosi annegare.
L’altro grande sospettato dell’omicidio di Simonetta fu il suo fidanzato Raniero Busco: nel 2007, infatti, il Ris di Parma determinò la corrispondenza fra le tracce di Dna riconducibili all’uomo e i reperti biologici rinvenuti sul corpo della vittima. Nel 2011, Busco venne condannato, in primo grado, a 24 anni di reclusione ma, nel processo di appello, fu invece assolto, assoluzione poi confermata dalla Cassazione nel 2014.
5. Il mostro di Udine
Tra i misteri irrisolti più inquietanti della nostra penisola, trova sicuramente posto quello del Mostro di Udine. Con l’appellativo Mostro di Udine intendiamo un serial killer, mai identificato, ritenuto responsabile di numerosi omicidi commessi nella provincia di Udine tra il 21 settembre 1971 e il 26 febbraio 1989. Le vittime (4 accertate e 10 sospette) erano soprattutto prostitute. In tutti e quattro i casi accertati, il ventre delle vittime si presentava inciso dall’addome al pube con un oggetto affilato, probabilmente un bisturi, dettaglio che fece supporre che il killer potesse essere un medico. Le indagini non portarono mai all’identificazione di un vero colpevole anche se, la pista più battuta dagli inquirenti, fu quella del chirurgo, avanzata in seguito all’omicidio di Marina Lepre nel 1989.
Marina Lepre
L’ultima vittima accertata del Mostro di Udine fu Marina Lepre, insegnante di scuola elementare, separata e madre di una ragazza di 13 anni, totalmente estranea al mondo della prostituzione. La sera della sua morte, il 26 febbraio 1989, la donna viene notata all’Ospedale di Udine, dove si trova per farsi medicare una lieve ferita e, successivamente, vista salire su una Fiat nei pressi della stazione. Marina verrà poi ritrovata senza vita la mattina seguente sul greto del fiume Torre, con l’addome squarciato fino all’altezza del pube con un’incisione a “s”. La precisione del taglio sull’addome, farà subito pensare agli inquirenti a un killer particolarmente abile a utilizzare il bisturi. I sospetti ricadranno su un ginecologo di mezza età che non aveva mai esercitato la professione medica.
I sospetti sul ginecologo
Il giorno della scoperta del cadavere, alle ore 19:00, un carabiniere di nome Edi Sanson e il suo collega decidono di tornare sulla scena del crimine. Qui sentono una voce provenire dalla vicina chiesa di San Bernardo, dove trovano un sessantenne in evidente stato confusionale che chiede perdono con le mani rivolte al cielo. Una volta accompagnato a casa, il fratello del sessantenne spiega ai carabinieri che l’uomo è un ginecologo di Udine affetto da allucinazioni. Sprovvisti di un regolare mandato, Edi Sanson e il collega non potranno perquisire l’abitazione e la posizione dell’uomo verrà archiviata per mancanze di prove.
6. La strage di Via Caravaggio
Il triplice omicidio di Via Caravaggio a Napoli è forse uno dei misteri irrisolti italiani più inquietanti di tutti i tempi. A quasi 50 anni dal suo compimento, infatti, resta ancora senza volto l’autore di una strage in cui ha perso la vita una famiglia intera. Tanti, invece, sono i dubbi e le ipotesi, in particolare attorno al principale sospettato, nipote di una delle vittime.
La scoperta dei cadaveri
È l’8 novembre 1975 quando Domenico Zarrelli si rivolge preoccupato alla polizia, in quanto, da diversi giorni, non ha più notizie della zia Gemma Cenname. Allertati dalla segnalazione, i poliziotti inviano una volante al civico 78 di Via Caravaggio, dove abitano Gemma, il marito 54enne Domenico Santangelo, rappresentante di vendita ed ex capitano di lungo corso, e la loro figlia Angela Santangelo, 19 anni, impiegata dell’INAM. Dopo aver suonato al campanello senza successo, gli agenti richiedono l’intervento dei Vigili del Fuoco per poter entrare nell’appartamento: la scoperta che faranno all’interno sarà agghiacciante. Appena varcata la soglia, infatti, gli uomini della polizia si trovano di fronte ai corpi senza vita di Domenico Santangelo e Gemma Cenname, completamente intrisi di sangue e depositati, uno sopra l’altro, all’interno della vasca da bagno. Sotto di loro, anche il cadavere del cagnolino Dick. Il corpo della figlia Angela, invece, viene rinvenuto avvolto in un lenzuolo e adagiato sul letto matrimoniale. Nessun membro della famiglia Santangelo è stato risparmiato.
Secondo le ricostruzioni, la strage sarebbe avvenuta nella notte tra giovedì 30 e venerdì 31 ottobre, tra le 23:00 e le 5:00 del mattino. Il primo a essere colpito sarebbe stato Domenico, ferito alla testa con un oggetto contundente e poi sgozzato con un coltello. Stessa sorte sarebbe toccata anche a Gemma, probabilmente sorpresa alle spalle, e ad Angela, che si trovava nella camera da letto dei genitori. Infine, la furia omicida si sarebbe scagliata anche sul cagnolino di famiglia, soffocato con una coperta. Si scoprirà, successivamente, un quarto cadavere: il figlio che Angela portava in grembo.
Il principale sospettato
A distanza di pochi giorni dal massacro, Domenico Zarrelli viene imputato sulla base di alcune dichiarazione rilasciate da un testimone, che lo avrebbe visto a bordo della sua auto la notte del triplice omicidio, e di alcune prove indiziarie: una ferita sulla mano compatibile con il morso di un cane e un precedente litigio con la famiglia Santangelo a causa di un prestito negato. Tanto basta per fare di Domenico il killer di Via Caravaggio, nonostante le prove rinvenute sulla scena del crimine (l’impronta di una calzatura numero 46 e alcuni mozziconi di sigarette Gitanes) risulteranno inconciliabili con la fisicità e le abitudini del giovane. Dopo l’arresto il 25 marzo del 1976 e la condanna all’ergastolo, l’8 marzo del 1985 giunge l’assoluzione definitiva da parte della Corte d’assise d’appello “per non aver commesso il fatto” e, nel 2007, un risarcimento per danni morali e materiali di circa un milione e 400mila euro.